Provincia autonoma di Bolzano – Minoranze linguistiche – Toponomastica – Corte Costituzionale, Sentenza n. 346/2010
dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 1 e 2, del decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), promossa – in riferimento agli articoli 2, 3, 8, n. 2, 16, 19, 99, 100, 101, 102, 105 e 107 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol (d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670), nonché agli articoli 3, 5, 6, 10, 11, 76, 77, 116 e 117, primo comma, della Costituzione e, inoltre, in relazione a diverse norme di attuazione del medesimo statuto (tra le quali, in particolare: d.P.R. 30 giugno 1951, n. 574; d.P.R. 19 ottobre 1977, n. 846; d.P.R. 31 luglio 1978, n. 571; d.P.R. 10 febbraio 1983, n. 89; d.P.R. 15 luglio 1988, n. 574); nonché in relazione all’Accordo di Parigi tra Italia e Austria del 5 settembre 1946; al Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947; alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo 10 dicembre 1948; alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950; alla Risoluzione del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite del 23 aprile 1959, n. 715 (XXVII), all. A; alla Risoluzione del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite del 31 maggio 1968, n. 1314 (XLIV); alla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie adottata dal Consiglio d’Europa il 5 novembre 1992; alla Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 18 dicembre 1992 in tema di diritti di persone appartenenti a minoranze; alla Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995; alla Convenzione sulla protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali del 20 ottobre 2005 – «limitatamente alla parte in cui mantiene in vigore il regio decreto 29 marzo 1923, n. 800 (Allegato 2, n. 190), convertito in legge 17 aprile 1925, n. 473 (Allegato 1, n. 182)», dalla Provincia autonoma di Bolzano con il ricorso di cui all’epigrafe.
Provincia autonoma di Bolzano – Minoranze linguistiche – Toponomastica – Disposizioni legislative anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore – Sottrazione all’effetto abrogativo, fra gli altri, del R.D. n. 88 del 1923, emanato in attuazione dei provvedimenti del Gran Consiglio del fascismo per l’Alto Adige, recante “Lezione ufficiale dei nomi dei comuni e delle altre località dei territori annessi.”
CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza n. 346 del 01/12/2010
composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, del decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), limitatamente alla parte in cui mantiene in vigore il regio decreto 29 marzo 1923, n. 800 (Allegato 2, n. 190), convertito in legge 17 aprile 1925, n. 473 (Allegato 1, n. 182), promosso dalla Provincia autonoma di Bolzano con ricorso notificato il 12 febbraio 2010, depositato in cancelleria il 22 febbraio 2010 ed iscritto al n. 23 del registro ricorsi 2010.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 ottobre 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi gli avvocati Stephan Beikircher, Michele Costa e Renate von Guggenberg per la Provincia autonoma di Bolzano e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 12 febbraio 2010 e depositato il successivo 22 febbraio 2010, la Provincia autonoma di Bolzano ha promosso – in riferimento agli articoli 2, 3, 8, n. 2, 16, 19, 99, 100, 101, 102, 105 e 107 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol (d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670), nonché agli articoli 3, 5, 6, 10, 11, 76, 77, 116 e 117, primo comma, della Costituzione e, inoltre, in relazione a diverse norme di attuazione dello statuto (tra le quali, in particolare: d.P.R. 30 giugno 1951, n. 574; d.P.R. 19 ottobre 1977, n. 846; d.P.R. 31 luglio 1978, n. 571; d.P.R. 10 febbraio 1983, n. 89; d.P.R. 15 luglio 1988, n. 574); nonché in relazione all’Accordo di Parigi tra Italia e Austria del 5 settembre 1946; al Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947; alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo 10 dicembre 1948; alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950; alla Risoluzione del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite del 23 aprile 1959, n. 715 (XXVII), all. A; alla Risoluzione del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite del 31 maggio 1968, n. 1314 (XLIV); alla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie adottata dal Consiglio d’Europa il 5 novembre 1992; alla Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 18 dicembre 1992 in tema di diritti di persone appartenenti a minoranze; alla Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995; alla Convenzione sulla protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali del 20 ottobre 2005 – questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, del decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), «limitatamente alla parte in cui mantiene in vigore il regio decreto 29 marzo 1923, n. 800 (Allegato 2, n. 190), convertito in legge 17 aprile 1925, n. 473 (Allegato 1, n. 182)».
Dopo aver succintamente esposto il contesto normativo nel quale si inquadrano le disposizioni impugnate, la ricorrente lamenta, in definitiva, che queste, disponendo – con efficacia dalla data di entrata in vigore del provvedimento, il 15 dicembre 2009, come previsto attraverso una “clausola d’urgenza” – la sottrazione all’effetto abrogativo, tra gli altri, del regio decreto 29 marzo 1923, n. 800 (Lezione ufficiale dei nomi dei comuni e delle altre località dei territori annessi), convertito in legge 17 aprile 1925, n. 473, che si sarebbe prodotto a decorrere dal giorno successivo, il 16 dicembre 2009, in virtù di quanto stabilito, salvi alcuni limiti, dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200 (Misure urgenti in materia di semplificazione normativa), convertito, con modificazioni, in legge 18 febbraio 2009, n. 9, abbiano violato le «particolari prerogative riconosciute alla Provincia autonoma di Bolzano», risultando costituzionalmente illegittime in riferimento ai parametri indicati.
Con il primo motivo di ricorso – tra i cinque sviluppati – la Provincia ricorrente si duole, in particolare, che «con l’emanazione del decreto legislativo in parte qua, lo Stato ha dato corso ad un’evidente violazione della competenza legislativa esclusiva della Provincia autonoma di Bolzano in materia di toponomastica» (art. 8, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 670 del 1972), «e delle relative competenze amministrative in materia» (art. 16 d.P.R. n. 670 del 1972): sarebbero state «lese le prerogative riconosciute alla Provincia autonoma di Bolzano per la presenza di minoranze linguistiche sul suo territorio a tutela delle stesse» e, di conseguenza, «violati gli specifici vincoli in essa esistenti in tema di uso della lingua tedesca e ladina», in dispregio del principio della «parificazione linguistica, avente carattere generale, assoluto ed inderogabile», con conseguente violazione, oltre che delle citate disposizioni statutarie, anche degli articoli 3, 5, 6, 116 della Costituzione nonché dei richiamati atti internazionali e, con ciò, degli articoli 10, 11 e 117, primo comma, della Costituzione.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta che le disposizioni impugnate siano «viziate da eccesso di delega», in violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione: sia perché sarebbe stato «il legislatore ordinario a decidere di abrogare» il r.d. n. 800 del 1923; sia perché, risultando tra i princìpi e i criteri indicati nella legge di delegazione (legge 28 novembre 2005, n. 246, art. 14, comma 14, lettere a e b) «quello dell’esclusione delle disposizioni oggetto di abrogazione tacita o implicita nonché quello dell’esclusione dalla permanenza in vigore delle disposizioni che abbiano esaurito la loro funzione o siano prive di effettivo contenuto normativo o siano comunque obsolete» – come per l’appunto sarebbe il r.d. n. 800 del 1923 – «il mantenimento in vigore o, meglio, la riviviscenza di tale norma non rientra nel perimetro tracciato dal legislatore delegante».
Con il terzo motivo, la Provincia ricorrente lamenta che le disposizioni impugnate siano state «emanate in violazione dell’articolo 107 dello Statuto speciale di autonomia per il Trentino-Alto Adige/Südtirol»: il quale, disciplinando il procedimento di emanazione di speciali norme, quali quelle di attuazione dello statuto, e prevedendo, per questo, «un istituto di cooperazione paritaria, rappresentato dalla commissione paritetica», espressione del principio di «leale collaborazione», impedisce che lo Stato possa modificare o derogare norme di questo tipo «unilateralmente» e al di fuori della prevista procedura. Qualora necessario, «sarebbe stato, quindi, questo l’unico strumento a cui lo Stato poteva eventualmente ricorrere per introdurre eventuali normative in materia di toponomastica».
Con il quarto motivo, la ricorrente si duole della violazione dell’art. 105 dello statuto speciale nonché delle risoluzioni n. 715 A (XXVII) del 23 aprile 1959 e n. 1314 (XLIV) del 31 maggio 1968 del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e, «per ciò stesso», degli articoli 10, 11, 117, primo comma, della Costituzione.
Ribadito che «non era necessario mantenere in vigore ovvero far rivivere espressamente le norme di cui al regio decreto 29 marzo 1923, n. 800, ed alla relativa legge di conversione […], peraltro del tutto obsolete e per di più in stridente contrasto con norme di natura costituzionale e para-costituzionali nonché con norme contenute in atti internazionali», la ricorrente rileva che la Regione è titolare (ai sensi dell’art. 4, n. 3, dello statuto speciale) di competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni, nei limiti imposti dalla Costituzione, e che, ai sensi dell’art. 7 dello statuto medesimo (corrispondentemente a quanto previsto dall’art. 133 Cost.), «con leggi della regione, sentite le popolazioni interessate, possono essere istituiti nuovi comuni e modificate le loro circoscrizioni e denominazioni».
Nell’arco degli ultimi sessanta anni, la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol avrebbe «emanato una ventina di leggi volte ad incidere sulla denominazione e circoscrizione di comuni siti nel territorio provinciale di Bolzano», mentre lo statuto direttamente menziona diverse località, fra le quali Bolzano. «Alla vigente disciplina statale in materia di toponimia» occorrerebbe, pertanto, rifarsi «per i nomi geografici non disciplinati in base alle fonti appena citate».
Riproposta la distinzione tra denominazioni dei luoghi “di carattere amministrativo” (per Regioni, Province, Comuni e articolazioni sub-comunali) e di “carattere non amministrativo” («vale a dire dei luoghi non entificati», «la cui ufficializzazione è in definitiva rimessa … alle carte topografiche ufficiali», sulla base del principio secondo cui le denominazioni «non vanno mai imposte, ma rilevate») e ricordato che «il territorio della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol e della Provincia autonoma di Bolzano/Bozen non fa eccezione alle regole di carattere generale […], se non in minima misura, dovuta al grado di maggiore autonomia riconosciuta alle due province di Trento e di Bolzano», la ricorrente ha osservato che «la denominazione della Regione stessa è stabilita direttamente con legge costituzionale (artt. 116 e 131 della Costituzione)»; che «la forma bilingue Trentino-Alto Adige/Südtirol della Regione è, peraltro, stabilita solo nel primo degli articoli menzionati, modificato con l’articolo 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, mentre nel secondo dei detti articoli, non interessato dalla riforma, è rimasta l’originaria dizione monolingue»; che «le province autonome di Trento e di Bolzano, essendo per più versi equiparate alle regioni, ne seguono anche il regime; di conseguenza sono anch’esse menzionate direttamente nella Carta costituzionale […], anche se non in forma bilingue, che rimane assicurata, per quella di Bolzano, dall’articolo 114 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige/ Südtirol»; che lo statuto regionale si preoccupa di definire anche i confini delle Province di Trento e Bolzano, «la modificazione dei quali non segue, pertanto, il regime previsto per le altre province, ma presuppone una procedura costituzionale, come per le regioni».
Con il quinto motivo di ricorso, lamentandosi il contrasto delle norme impugnate con i richiamati atti internazionali (e, in particolare, la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie adottata dal Consiglio d’Europa il 5 novembre 1992 e la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995) e, perciò, la violazione degli articoli 10, 11 e 117, primo comma, Cost., la ricorrente sottolinea che «in tali atti internazionali si affermano principi di eguaglianza e non discriminazione per motivi attinenti alla lingua e si intende garantire la effettiva partecipazione degli appartenenti alle minoranze nazionali alla vita collettiva del loro paese attraverso il diritto all’uso della lingua nelle relazioni istituzionali, il diritto all’istruzione anche nella lingua minoritaria, il sostegno alla cultura della minoranza», impegnandosi le parti contraenti a garantire l’effettivo esercizio dei diritti riconosciuti.
2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere una declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della questione.
Ricostruito brevemente l’iter degli atti normativi ai quali si riferisce il ricorso, nell’atto di costituzione si è preliminarmente osservato che «in base a questo complesso normativo, in pratica, non si è mai prodotta, a partire dal 16 dicembre 2009, l’abrogazione del r.d. 800/23, e questo è rimasto ininterrottamente in vigore».
In riferimento alle specifiche ragioni esposte nel ricorso, la difesa erariale ha eccepito: 1) quanto al primo e al quinto motivo, che essi sarebbero infondati, atteso che, proprio sulla base dell’art. 105 dello statuto speciale, «la persistente vigenza del r.d. 800/23 non può […] essere contraria allo Statuto, per lo meno fino a quando la Provincia non eserciti, nelle forme e nei limiti previsti dallo Statuto speciale, le proprie competenze in materia». D’altra parte, prevedendo il detto r.d. n. 800 del 1923 «l’indicazione bilingue dei toponimi», esso «è idoneo a garantire i diritti di entrambi i gruppi linguistici coesistenti nel territorio»; 2) quanto al secondo motivo di ricorso, concernente l’eccesso di delega, esso sarebbe, da un lato, inammissibile, non apparendo la Provincia «legittimata a denunciare l’eccesso di delega di un decreto legislativo statale» (e, cioè, a formulare una censura «eccedente l’ambito di quelle dirette a rivendicare il rispetto delle competenze provinciali»); d’altro canto, esso sarebbe, «in ogni caso», infondato: l’ipotesi di un’abrogazione tacita del r.d. n. 800 del 1923 sarebbe, infatti, esclusa dalla circostanza della mancata emanazione di «norme successive regolanti la medesima materia e incompatibili con esso» e, invece, «la salvaguardia» di detto decreto risulterebbe, piuttosto, «imposta dal principio di cui all’art. 14, comma 14, lettera c), della l. 246/05» a tutela di «diritti costituzionali fondamentali», la cui lesione costituirebbe, «per l’intera popolazione provinciale (a prescindere dal gruppo linguistico di appartenenza)», «quantomeno, un insormontabile ostacolo alla libertà di movimento»; 3) anche il terzo motivo di ricorso sarebbe infondato: nella prospettiva, sostenuta dalla ricorrente, secondo cui ogni intervento normativo in materia di denominazione dei comuni altoatesini dovrebbe seguire, ai sensi dell’art. 107 dello statuto, le procedure ivi previste, risulterebbe, infatti, illegittima anche l’abrogazione del r.d. n. 800 del 1923 disposta dalla legge di conversione del d.l. n. 200 del 2008 al di fuori di quelle procedure. D’altra parte, il decreto legislativo impugnato «non ha introdotto alcuna innovazione nella disciplina della toponomastica provinciale»: limitandosi ad impedire che il r.d. n. 800 del 1923 «perdesse vigore», ha lasciato, invece, che questo, per l’appunto, rimanesse «ininterrottamente in vigore», costituendo «la sola fonte normativa regolante la materia»; 4) parimenti infondato sarebbe il quarto motivo di ricorso, secondo il quale, sul presupposto della competenza esclusiva della Provincia nella materia de qua, risulterebbe illegittima qualsiasi legge dello Stato che intendesse disciplinarla. Disponendosi soltanto che il r.d. n. 800 del 1923 (rispetto alla cui adozione è indubbio che sussistesse la competenza dello Stato) «permanesse in vigore senza soluzione di continuità» o restasse escluso dall’abrogazione, non si sarebbe introdotta «alcuna nuova disciplina inerente alla denominazione dei comuni» né, in assenza di un obbligo costituzionale di abrogazione, si sarebbe provocata alcuna lesione nella sfera di competenza della Provincia.
3. – In prossimità dell’udienza, la ricorrente ha presentato una memoria per insistere nella richiesta di una pronuncia caducatoria, ribadendo gli argomenti esposti per sostenere che «la reintroduzione», attraverso le disposizioni impugnate, del r.d. n. 800 del 1923 «significa l’introduzione nell’ordinamento di una serie di prescrizioni lesive delle prerogative riconosciute alla Provincia autonoma di Bolzano per la presenza di minoranze linguistiche sul suo territorio e a tutela delle stesse nonché dei specifici vincoli in tema di uso della lingua tedesca e ladina e comprime le competenze provinciali in materia di toponomastica».
Diversamente da quanto eccepito dall’Avvocatura, l’abrogazione del r.d. n. 800 del 1923 sarebbe, infatti, stata disposta «ovvero confermata» già con l’art. 2, comma 1, del d.l. n. 200 del 2008 a decorrere dal 16 dicembre 2009 e la sottrazione all’effetto abrogativo sarebbe stata ottenuta proprio con l’entrata in vigore, il giorno precedente, del decreto legislativo n. 179 del 2009 munito della “clausola d’urgenza”.
Quanto all’argomento secondo cui la «persistente vigenza» del r.d. n. 800 del 1923 discenderebbe dall’art. 105 dello statuto speciale, la Provincia osserva, in replica, che l’applicazione, in materia, delle leggi dello Stato «non significa e non può significare che si debba mantenere in vigore un decreto con il quale è stata identificata una nomenclatura esclusivamente italiana per tutte le denominazioni tedesche, di conseguenza vietate, salve rare eccezioni» (e pertanto non «idonea a garantire i diritti di entrambi i gruppi linguistici», «in evidente contrasto» anche con l’art. 3 Cost.): dovendosi piuttosto detta applicazione potersi riferire alle «sole regole procedurali per l’individuazione» dei toponimi «sulla base di studi storico-linguistici» e non a quelle che in un dato momento ne abbiano imposto un uso determinato.
Il richiamo al solo art. 105 dello statuto sarebbe, del resto, «fuori luogo», «data la marea di fonti normative da cui discende la disciplina delle denominazioni». E, in ogni caso, l’unico strumento disponibile «per introdurre ovvero reintrodurre normative in materia di toponomastica» sarebbe stata la procedura, in altre occasioni attivata, di cui all’art. 107 dello statuto speciale, che prevede, in linea con il principio di leale collaborazione, istituti di cooperazione paritaria quali la Commissione paritetica, per l’emanazione di speciali norme come quelle di attuazione dello statuto.
Quanto al denunciato vizio di eccesso di delega, in riferimento all’art. 76 Cost., la Provincia sottolinea di aver con ciò lamentato, come indicato da costante giurisprudenza costituzionale, la lesione di proprie competenze, che «la reviviscenza» del r.d. n. 800 del 1923 violerebbe.
D’altra parte, «tale decreto non poteva essere mantenuto in vigore», e andava invece considerato «obsoleto e, quindi, abrogato tacitamente» in base ai princìpi di cui alla stessa legge di delega, tenuto conto della opposta volontà espressa dal legislatore ordinario «appena dieci mesi prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 179 del 2009» (e che, perciò, risulterebbe innovativo nella disciplina della materia).
Né l’abrogazione del r.d. n. 800 del 1923 avrebbe potuto tradursi, come eccepito dall’Avvocatura, «nella lesione di diritti costituzionali fondamentali per la popolazione provinciale», dal momento che detto decreto «non può assolutamente considerarsi normativa sulla toponomastica, essendo la procedura per denominare i luoghi prevista da ben altre norme». Nel vigente sistema, infatti, al legislatore regionale spetterebbe la competenza «per le denominazioni dei Comuni e per le modifiche alle denominazioni preesistenti» ed a quello provinciale quella «per la rimanente toponomastica locale», «con la conseguenza che il legislatore statale non può intervenire sulla materia»: ciò che, invece, sarebbe avvenuto proprio «facendo rivivere il r.d. 800/1923».
4. – Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha, in prossimità dell’udienza, presentato una memoria per insistere nella richiesta di una declaratoria di inammissibilità o di non fondatezza della questione promossa.
L’inammissibilità riguarderebbe il profilo relativo alla denominazione dei Comuni, la cui competenza esclusiva, ai sensi dell’art. 7 dello statuto speciale, risulta attribuita alla Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol e non a quella della Provincia autonoma di Bolzano, competente, invece, in base all’art. 8, n. 2, dello statuto medesimo, in materia di toponomastica locale (si richiama, al riguardo, la sentenza di questa Corte n. 28 del 1964).
La non fondatezza riguarderebbe la questione anche se limitata alle denominazioni di luogo diverse da quelle dei Comuni. Non solo, infatti, il r.d. n. 800 del 1923 non lederebbe il principio del bilinguismo né le competenze della Provincia, ma anzi esso espressamente prevedrebbe che l’indicazione bilingue dei nomi di luogo sia data quando necessario “per ragioni di pratica e comune intelligenza”. La stessa garanzia sarebbe «resa indefettibile», del resto, dall’art. 101 dello statuto, che impone di utilizzare la toponomastica tedesca «se la legge provinciale ne abbia accertata l’esistenza ed approvata la dizione», rinviando, per «l’attuazione concreta», «all’iniziativa legislativa e amministrativa della Provincia».
«La finalità della disposizione impugnata», pertanto, lungi dall’essere quella di «sopprimere le indicazioni toponomastiche tedesche», sarebbe stata, più semplicemente, quella «di evitare che si aprisse un vuoto normativo nelle denominazioni ufficiali (tanto italiane quanto tedesche) dei luoghi compresi nel territorio provinciale»: e un’eventuale abrogazione del decreto avrebbe determinato una «situazione di grave incertezza in una materia che, palesemente, non può tollerarla».
D’altra parte, non potrebbe seriamente dubitarsi della competenza del legislatore statale a disporre il mantenimento in vigore del r.d. n. 800 del 1923: sia perché tale competenza deriverebbe dall’art. 105 dello statuto speciale, in relazione perfino ad un «obbligo costituzionale» di disporre la permanenza in vigore di detto decreto prima del prodursi dell’effetto abrogativo; sia perché, in termini più generali, essa risulterebbe «in qualche modo incidente sulle garanzie di tutela delle minoranze linguistiche dell’Alto Adige», la quale costituisce «principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale».
Indicate le tappe del percorso della giurisprudenza di questa Corte in materia, anche sotto il profilo del «riparto delle relative competenze», l’Avvocatura richiama la sentenza n. 159 del 2009, i cui princìpi, «all’esito di questo svolgimento», consentirebbero di considerare «senza alcun dubbio» attribuita al legislatore statale la disciplina delle «modalità di attuazione della tutela delle minoranze linguistiche, nella prospettiva del bilanciamento di tale tutela con i diritti fondamentali della generalità, che non sono meno meritevoli di tutela», spettando agli enti territoriali («esponenziali delle minoranze tutelate») di «concorrere a questo processo mediante la legislazione attuativa concordata pariteticamente con lo Stato».
Inserendosi «chiaramente» in questo contesto, la normativa impugnata risulterebbe, pertanto, conforme a un composito assetto normativo «ormai consolidato» e capace di soddisfare «in modo equilibrato le diverse esigenze rilevanti».
Considerato in diritto
1. – Con il ricorso indicato in epigrafe, la Provincia autonoma di Bolzano ha promosso – in riferimento agli articoli 2, 3, 8, n. 2, 16, 19, 99, 100, 101, 102, 105 e 107 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol (d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670), nonché agli articoli 3, 5, 6, 10, 11, 76, 77, 116 e 117, primo comma, della Costituzione e, inoltre, in relazione a diverse norme di attuazione dello statuto medesimo e ad accordi e atti internazionali con precisione indicati supra (Ritenuto in fatto, n. 1) – questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, del decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), «limitatamente alla parte in cui mantiene in vigore il regio decreto 29 marzo 1923, n. 800 (Allegato 2, n. 190), convertito in legge 17 aprile 1925, n. 473 (Allegato 1, n. 182)».
2. – La Provincia ricorrente lamenta, in sintesi, che il decreto legislativo n. 179 del 2009, nel disporre la “reintroduzione” o la “revivescenza” nell’ordinamento del regio decreto 29 marzo 1923, n. 800 (Lezione ufficiale dei nomi dei comuni e delle altre località dei territori annessi), come convertito in legge 17 aprile 1925, n. 473, dopo che esso era stato ricompreso nell’elenco degli atti legislativi destinati all’abrogazione ad opera dell’art. 2, comma 1, del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200 (Misure urgenti in materia di semplificazione normativa), convertito, con modificazioni, in legge 18 febbraio 2009, n. 9, abbia provocato una lesione della competenza esclusiva della Provincia medesima in materia di toponomastica, ad essa attribuita dalle norme dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, costituendosi in giudizio, ha concluso perché la questione venga dichiarata inammissibile o infondata, con argomenti sviluppati sulla base della preliminare osservazione secondo cui dal complesso normativo di cui alle norme impugnate si ricaverebbe che «in pratica non si è mai prodotta, a partire dal 16 dicembre 2009, l’abrogazione del r.d. 800/23, e questo è rimasto ininterrottamente in vigore».
4. – La questione è inammissibile.
4.1. – Il decreto legislativo n. 179 del 2009, impugnato all’art. 1, commi 1 e 2, consta di un solo articolo, composto di cinque commi, e di due Allegati.
La norma di cui al comma 1 prevede che «Ai fini e per gli effetti dell’articolo 14, commi 14, 14-bis e 14-ter, della legge 28 novembre 2005, n. 246, e successive modificazioni, nell’Allegato 1 del presente decreto legislativo sono individuate le disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi, delle quali è indispensabile la permanenza in vigore».
La norma di cui al comma 2 stabilisce che «Sono sottratte all’effetto abrogativo di cui all’articolo 2 del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2009, n. 9, le disposizioni indicate nell’Allegato 2 al presente decreto legislativo, che permangono in vigore anche ai sensi e per gli effetti dell’articolo 14, commi 14, 14-bis e 14-ter, della legge 28 novembre 2005, n. 246, e successive modificazioni».
Nell’elenco di cui all’Allegato n. 1 (Atti normativi salvati pubblicati anteriormente al 1° gennaio 1970) è indicata, al n. 182, la legge n. 473 del 1925; nell’elenco di cui all’Allegato n. 2 (Atti salvati dall’elenco delle abrogazioni allegato al decreto legge 22 dicembre 2008 n. 200, così come convertito dalla legge 18 febbraio 2009, n. 9) è indicato, al n. 190, il r.d. n. 800 del 1923.
4.2. – Il decreto legislativo in parola è stato emanato in esecuzione della delega legislativa di cui all’art. 14, commi 14 e 15, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005), disposta per l’individuazione, sulla base di specifici «princìpi e criteri direttivi», di «disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi, delle quali si ritiene indispensabile la permanenza in vigore» (comma 14) nonché per la «semplificazione» o il «riassetto della materia che ne è oggetto», «anche al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in vigore con quelle pubblicate successivamente alla data del 1° gennaio 1970» (comma 15).
Il testo originario del richiamato art. 14, comma 14, è stato poi sostituito ad opera dell’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che, confermando la disposizione delegante, ha introdotto, ai commi 14-bis, 14-ter e 14-quater, ulteriori discipline per stabilire la persistente applicabilità delle disposizioni statali «nelle materie appartenenti alla legislazione regionale», «fino alla data di entrata in vigore delle relative disposizioni regionali»; nonché l’abrogazione, decorsi alcuni termini, delle disposizioni legislative statali non comprese nei decreti legislativi emanati; o, ancora, l’ampliamento della delega, destinata all’abrogazione espressa di disposizioni da considerare tacitamente o implicitamente abrogate o «comunque obsolete».
4.3. – Nella pendenza dei termini per l’esercizio della delega, è stato emanato il ricordato d.l. n. 200 del 2008, il quale, all’art. 2, comma 1, nel testo sostituito dalla legge di conversione 18 febbraio 2009, n. 9, ha disposto che, «a decorrere dal 16 dicembre 2009», avesse luogo l’abrogazione delle disposizioni elencate nell’Allegato 1, facendo tuttavia «salva l’applicazione dei commi 14 e 15 dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246». Nell’elenco di cui all’Allegato 1 era indicato, al n. 10136 bis, introdotto in sede di conversione, il r.d. n. 800 del 1923.
4.4. – Su queste basi, si può agevolmente ricavare che, diversamente da quanto prospettato dalla ricorrente, l’entrata in vigore, il 15 dicembre 2009, del decreto legislativo n. 179 del 2009, lungi dal determinare la “reintroduzione” o la “reviviscenza” nell’ordinamento del richiamato r.d. n. 800 del 1923, come convertito in legge n. 473 del 1925, ha semplicemente consentito di vederne confermata la vigenza, sull’ovvio presupposto – evidenziato dalla difesa dello Stato – che esso non l’avesse perduta e che perciò, altrettanto evidentemente, non avesse necessità di riacquistarla.
Inserendo, infatti, da un lato, la legge n. 473 del 1925 nell’elenco degli atti la cui «permanenza in vigore» viene considerata «indispensabile» e, dall’altro, conseguentemente, impedendo, con espressa disposizione, che, a partire dal 16 dicembre 2009, si producesse, per «le disposizioni elencate», l’effetto abrogativo previsto dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 200 del 2008 come convertito, le norme impugnate si sono evidentemente limitate ad assicurare che, tra gli altri, il r.d. n. 800 del 1923, per l’appunto, non cessasse di restare in vigore, come era stato per decenni.
E’ ben vero che – a parte i profili strettamente connessi alla cronologia dell’efficacia delle disposizioni in esame – la volontà abrogativa manifestata dal legislatore dell’urgenza, sia pure con le modificazioni apportate in sede parlamentare, risulti, in definitiva, contraddetta, relativamente a specifici atti, da quella, invece, conservativa, espressa dal legislatore delegato, peraltro in esecuzione del suo mandato.
Ma è altrettanto pacifico che – indipendentemente dal problema dei rapporti tra poteri (e limiti) del legislatore delegato e uso insindacabile della ragionevole discrezionalità legislativa, nonché dalla questione, altrettanto generale, se possa o meno reputarsi, in ipotesi, sussistente, in capo al legislatore, un qualche obbligo di abrogazione –, la norma di cui all’art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 200 del 2008, come convertito, nel prevedere l’abrogazione degli atti in elenco a decorrere dalla data indicata, ha espressamente e specificamente previsto che questa dovesse valere «salva l’applicazione dei commi 14 e 15 dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246». Così che, in altri termini, l’efficacia dell’abrogazione, prevista, come già rilevato, nelle more dell’esercizio della delega, è apparsa sin da subito ragionevolmente destinata a trovare un limite nel complesso normativo di cui alla legge di delegazione. E, d’altra parte, corrispondentemente, l’art. 1, comma 2, impugnato, nel sottrarre le indicate disposizioni all’effetto abrogativo ormai prossimo a prodursi, ne ha stabilito la permanenza in vigore «anche ai sensi e per gli effetti» della delega: con ciò espressamente confermando l’intenzione di escludere che potesse eventualmente risultare destinato all’abrogazione, ad opera del legislatore dell’urgenza, un atto che il successivo legislatore delegato considerasse, invece, meritevole di essere mantenuto in vigore.
4.5. – Proprio in ragione della sua funzione meramente ricognitiva, il decreto legislativo n. 179 del 2009 appare, pertanto, nelle disposizioni impugnate, sprovvisto di una propria e autonoma forza precettiva o, se si preferisce, di quel carattere innovativo che si suole considerare proprio degli atti normativi: non è dubbio, infatti, che, nell’individuare le disposizioni da mantenere in vigore, esso non ridetermini né in alcun modo corregga le relative discipline, limitandosi a confermare, peraltro indirettamente – attraverso, cioè, la mera individuazione di atti da “salvare”–, la persistente e immutata loro efficacia.
4.6. – In quanto tali, le disposizioni impugnate appaiono, perciò, prive della capacità di ledere, per sé stesse, come si lamenta, la sfera della competenza della Provincia ricorrente in materia di “toponomastica”; il tutto a prescindere dal problema di ciò che con questa espressione si voglia intendere e di ciò che, invece, riguardi la materia della “denominazione dei comuni”, ai fini, eventualmente, del riparto delle relative competenze, secondo lo statuto speciale, tra Provincia autonoma di Bolzano e Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
Ne consegue il difetto, in capo alla ricorrente, di un diretto e attuale interesse a sostenere l’impugnazione proposta.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 1 e 2, del decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), promossa – in riferimento agli articoli 2, 3, 8, n. 2, 16, 19, 99, 100, 101, 102, 105 e 107 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol (d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670), nonché agli articoli 3, 5, 6, 10, 11, 76, 77, 116 e 117, primo comma, della Costituzione e, inoltre, in relazione a diverse norme di attuazione del medesimo statuto (tra le quali, in particolare: d.P.R. 30 giugno 1951, n. 574; d.P.R. 19 ottobre 1977, n. 846; d.P.R. 31 luglio 1978, n. 571; d.P.R. 10 febbraio 1983, n. 89; d.P.R. 15 luglio 1988, n. 574); nonché in relazione all’Accordo di Parigi tra Italia e Austria del 5 settembre 1946; al Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947; alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo 10 dicembre 1948; alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950; alla Risoluzione del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite del 23 aprile 1959, n. 715 (XXVII), all. A; alla Risoluzione del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite del 31 maggio 1968, n. 1314 (XLIV); alla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie adottata dal Consiglio d’Europa il 5 novembre 1992; alla Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 18 dicembre 1992 in tema di diritti di persone appartenenti a minoranze; alla Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995; alla Convenzione sulla protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali del 20 ottobre 2005 – «limitatamente alla parte in cui mantiene in vigore il regio decreto 29 marzo 1923, n. 800 (Allegato 2, n. 190), convertito in legge 17 aprile 1925, n. 473 (Allegato 1, n. 182)», dalla Provincia autonoma di Bolzano con il ricorso di cui all’epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 novembre 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Depositata in Cancelleria l’1 dicembre 2010.