Contratto d’opera sottoposto a condizione e comportamento delle parti – Nota a Cassazione Civile, Sentenza n. 13496/2010
di Vincenzo Farro
La sentenza in esame si segnala all’attenzione del lettore, perché, sulla scorta di una precedente pronunzia delle SS.UU. civili, riafferma un principio relativo a quello che deve essere il comportamento delle parti, durante lo stato di pendenza della condizione (art.1358 c.c.).
La, or non più, vexata quaestio, è (era) relativa al caso dell’amministrazione pubblica che commissiona un progetto ad un professionista, subordinando, l’erogazione del compenso, al finanziamento (regionale, nazionale, europeo et similia) dell’opera pubblica oggetto della progettazione.
Ci si era chiesto se, mancando il finanziamento, si dovesse ritenere, ai sensi dell’art. 1359 c.c., avverata la condizione, mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa.
La S. C., nella Sentenza in esame, ha censurato la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che aveva rigettato la domanda di pagamento del compenso, avanzata dal professionista, per il pagamento dell’opera professionale prestata, che, secondo il contratto stipulato con il Comune, era subordinato al finanziamento, da parte di terzi, dell’opera progettata.
I giudici di merito avevano affermato che era irrilevante stabilire se il mancato finanziamento dell’opera fosse dipeso o meno dalla condotta dell’amministrazione comunale, ritenendo per un verso che l’art. 1359 c.c., non fosse applicabile nel caso, come quello di specie, di un contratto con il quale una pubblica amministrazione conferisca ad un professionista l’incarico di progettazione di un’opera, subordinando il pagamento del compenso al finanziamento dell’opera da parte di un terzo, in quanto in tale ipotesi non vi sarebbe un interesse dell’amministrazione contrario all’avveramento della condizione; per altro verso, in quanto, versandosi in ipotesi di condizione mista, non poteva ritenersi che sussistesse un obbligo dell’amministrazione a richiedere il finanziamento, cosicché non poteva considerarsi tale omissione contraria a buona fede e fonte di responsabilità.
La S.C., sulla scorta della Sentenza SS.UU. civili n. 18450 del 2005, conferma due principii di fondamentale importanza, non solo nella specifica materia :
in primo luogo, con riferimento all’art. 1359 c.c., del quale si rileva un’errata interpretazione, da parte della Corte territoriale ;
di poi, con riguardo all’art. 1358 c.c., limiti e portata del quale sono,nella motivazione in esame, inestricabilmente intrecciati alla soluzione da dare, al caso di specie, alla luce dell’art. 1359 c.c.
In primo luogo, ha osservato la S.C., l’art. 1359 c.c., con l’espressione “la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa” ha inteso semplicemente riferirsi a colui che risulterebbe liberato dall’obbligazione se la condizione non si verifichi ed al mancato verificarsi della condizione per cause a lui imputabili.
Inoltre, precisa la S.C., il mancato avveramento della condizione, che determina le conseguenze previste da tale articolo, può consistere non solo in un comportamento commissivo della parte che in caso di mancato avveramento della condizione sarebbe liberata dalla sua obbligazione, ma anche in un suo comportamento omissivo, se essa era tenuta ad un “facere” in relazione alla possibilità di avveramento della condizione, come – secondo quanto sopra esposto – può accadere in relazione all’elemento potestativo delle condizioni miste;
quindi, per ritenere applicabile o non applicabile l’art. 1359 c.c., a seguito del mancato avveramento della condizione suddetta il giudice di merito deve accertare se, in base ai doveri gravanti sull’amministrazione contraente in forza dell’art. 1358 c.c. – secondo l’interpretazione datane dalla sopra menzionata sentenza delle sezioni unite di questa Corte -essa si sia attivata per ottenere il finanziamento e le iniziative prese a tal fine corrispondessero “ad uno standard esigibile di buona fede”. Deve quindi accertare, ove non si sia attivata o abbia desistito dall’attivarsi, se ciò possa considerarsi, in relazione alla situazione concretamente determinatasi, conforme agli obblighi nascenti dall’art. 1358 c.c., ovvero se ciò sia ingiustificabile alla stregua di tali obblighi.
E’ opportuno riportare, sùbito, la massima di Cass. civ., sez. un., 19 settembre 2005, n. 18450:
Il contratto sottoposto a condizione potestativa mista è soggetto alla disciplina di cui all’art. 1358 c.c., che impone alle parti l’obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di tale obbligo va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista.
In tema di art. 1358 c.c. non si può tacere dell’importanza dell’obbligo di buona fede che, secondo Cass. civ., sez. III, 15 febbraio 2007, n. 3462 costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, che impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale (specificantesi in obblighi di informazione e di avviso) nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio.
Nello specifico del contratto sottoposto a condizione mista, va ricordata Cass. civ., sez. I, 22 aprile 2003, n. 6423, secondo la quale questo tipo di contratto è soggetto alla disciplina tanto dell’art. 1358 c.c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza, quanto dell’art. 1359 c.c., secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento.
In data 28 Luglio 2004, la Sezione I, con Sentenza n. 14198, aveva confermato:
La clausola contrattuale che sottoponga il sorgere del diritto al compenso, da parte del professionista incaricato del progetto di un’opera pubblica, all’intervenuto finanziamento dell’opera progettata, contiene una condizione mista che, con riferimento al periodo successivo all’entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, obbliga la parte pubblica a osservare il principio di regolarità dell’azione amministrativa il quale viene ad integrare, se del caso, i canoni contrattuali di correttezza e buona fede.
In questo caso, c’è un richiamo alla nota legge in tema di procedimento amministrativo, che sembrerebbe circoscrivere, il fondamento della soluzione adottata, al periodo successivo all’entrata in vigore della legge stessa.
In verità, poi, la Sentenza in esame motiva ed argomenta, prescindendo del tutto dal principio di regolarità dell’azione amministrativa e perviene ad una conclusione che appare, come in effetti è, più squisitamente ed esclusivamente civilistica.
Corte di Cassazione, sezione Prima, Sentenza n. 13469 del 3 giugno 2010
1. L’architetto S.D. convenne dinanzi al tribunale di Palermo il Comune di Ciminna chiedendone la condanna al pagamento del compenso per la rogettazione dei lavori relativi all’arredamento della casa comunale, affidatagli con contratto del 26 maggio 1985.
Nel contraddittorìo fra le parti il tribunale condannò il Comune convenuto al pagamento della somma di L. 38.500.000, oltre interessi, dichiarando nulla la clausola del contratto con la quale l’attore aveva dichiarato di non pretendere alcun compenso in caso di mancato finanziamento dell’opera da parte dell’amministrazione regionale. La sentenza venne appellata dal Comune e la Corte d’appello di Palermo, con sentenza depositata il 2 febbraio 2004, in riforma della sentenza di primo grado, rigettò la domanda e dichiarò
improponibile l’ulteriore domanda ex art. 2041 c.c.. Il S. ricorre avverso tale sentenza con atto notificato il 27 gennaio 2005, formulando due motivi.
Il Comune ha depositato una memoria notificata in data 4 ottobre 2005. Il ricorrente ha anche depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Non essendo stato depositato tempestivo controricorso, il deposito della successiva memoria deve ritenersi precluso ed essa, pertanto, non può essere presa in esame. (Cass. SS.UU. 26 maggio 1979, n. 3062 e successiva consolidata giurisprudenza).
2.1. Con il primo motivo si censura l’affermazione della Corte d’appello secondo la quale alla fattispecie non sarebbe applicabile il disposto dell’art. 1359 c.c., in quanto il Comune non avrebbe avuto un interesse contrario all’avveramento della condizione e poichè la condizione apposta alla convenzione con la quale era stato conferito l’incarico professionale (in base alla quale il pagamento del corrispettivo era stato condizionato al
finanziamento dell’opera da parte dell’amministrazione regionale) era una condizione mista, cosicchè il Comune non era obbligato a chiedere il finanziamento, con la conseguenza che il suo mancato avveramento non sarebbe ad esso imputabile. Si deduce che tale interpretazione violerebbe le norme che impongono comportamenti di buona fede nella stipulazione, interpretazione ed esecuzione del contratto, svuotando di qualsiasi contenuto precettivo il contratto stesso e travisando l’accordo raggiunto fra le parti, essendo di tutta evidenza che il verificarsi della condizione dipendeva in parte dal Comune e in parte dall’amministrazione regionale e il Comune aveva l’obbligo di richiedere il finanziamento, risultando altrimenti violato il dovere di comportamento secondo buona fede.
Il motivo è fondato nei sensi appresso indicati.
2.2. La sentenza ha rigettato la domanda di pagamento del compenso per l’opera professionale prestata, che secondo il contratto stipulato con il Comune era subordinato al finanziamento dell’opera progettata da parte dell’amministrazione regionale, affermando che era irrilevante stabilire se il mancato finanziamento dell’opera fosse dipeso o meno dalla condotta dell’amministrazione comunale, ritenendo per un verso che l’art. 1359 c.c.,
non fosse applicabile nel caso, come quello di specie, di un contratto con il quale una pubblica amministrazione conferisca ad un professionista l’incarico di progettazione di un’opera, subordinando il pagamento del compenso al finanziamento dell’opera da parte di un terzo, in quanto in tale ipotesi non vi sarebbe un interesse dell’amministrazione contrario all’avveramento della condizione. Per altro verso in quanto, versandosi in ipotesi di condizione mista, non poteva ritenersi che sussistesse un obbligo dell’amministrazione
a richiedere il finanziamento, cosicchè non poteva considerarsi tale omissione contraria a buona fede e fonte di responsabilità. Tali statuizioni muovono dall’affermazione della carenza di un interesse dell’amministrazione contrario all’avveramento della condizione apodittica e non correlata a un’esatta interpretazione dell’art. 1359 c.c. – a norma del quale “la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa” – nonchè della norma dell’art. 1358 c.c., secondo la quale chi si sia obbligato sotto condizione sospensiva deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte.
2.3. A proposito dell’art. 1358 c.c., questa Corte, a Sezioni Unite, con riferimento a fattispecie analoga a quella in esame, con la sentenza 19 settembre 2005, n. 18450 ha statuito che anche il contratto sottoposto a una condizione potestativa mista è soggetto alla disciplina di tale articolo, dovendo la sussistenza dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione essere riconosciuto anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista. Ha affermato al riguardo che il principio di buona fede, intesa come requisito della condotta dei contraenti, costituisce criterio di valutazione e limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volontà dipende (in parte) l’avveramento della condizione. E il suo comportamento non può essere considerato privo di ogni carattere doveroso, sia perchè altrimenti la condizione finirebbe per risolversi nell’attribuzione a una parte di un potere meramente arbitrario in ordine alla determinazione dell’efficacia del contratto, contrario al dettato dell’art. 1355 c.c., sia perchè aderendo a tale indirizzo si verrebbe ad introdurre nel precetto dell’art. 1358 una restrizione che questo non prevede e che, anzi, condurrebbe ad un sostanziale svuotamento del contenuto della norma, limitandolo all’elemento casuale della condizione mista, cioè ad un elemento sul quale la condotta della parte (la cui obbligazione è condizionata) ha ridotte possibilità d’incidenza, mentre la posizione giuridica dell’altra parte resterebbe in concreto priva di ogni tutela. Invece è proprio l’elemento potestativo quello in relazione al quale il dovere di comportarsi secondo buona fede ha più ragion d’essere, perchè è con riguardo a quell’elemento che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte deve essere esercitata nel quadro del principio cardine di correttezza.
E se è vero che l’omissione di un’attività in tanto può costituire fonte
di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, deve ritenersi che tale obbligo, in casi come quello in esame, discenda direttamente dall’art. 1358 c.c., che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione: cosicchè la sussistenza di un obbligo siffatto va riconosciuta
anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista, quale effetto “ex lege” del contratto.
Pertanto il giudice del merito, nel giudicare in relazione alle fattispecie quali quella in esame, deve procedere a un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti, nel contesto del negozio in cui la clausola è contenuta, al fine di verificare, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere il
finanziamento, ovvero se sussistessero circostanze che giustificassero, in conformità di detto standard, la desistenza o la mancata adozione di dette iniziative.
2.4. Riguardo, poi, all’art. 1359 c.c., va considerato che le parti, con il contratto condizionato, intendono ricollegare gli effetti del contratto alla situazione esistente al momento del negozio, estrapolando da tale situazione un elemento di rischio – collegato ad un determinato fatto futuro e incerto – che una o entrambe le parti non intendono assumersi. Ricollegandosi la funzione della condizione alla garanzia da tale rischio dal quale si vuole coprire l’obbligato, il legislatore, con gli artt. 1358 e 1359 c.c., ha inteso sanzionare il suo comportamento ove sia stato tale da incidere sulle probabilità di avveramento del fatto dedotto in condizione, alterando indebitamente il fattore di rischio e quindi anche il sinallagma contrattuale.
L’art. 1359 c.c., pertanto, con l’espressione “la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa” ha inteso semplicemente riferirsi a colui che risulterebbe liberato dall’obbligazione se la condizione non si verifichi ed al mancato verificarsi della condizione per cause a lui imputabili.
Inoltre il mancato avveramento della condizione, che determina le conseguenze previste da tale articolo, può consistere non solo in un comportamento commissivo della parte che in caso di mancato avveramento della condizione sarebbe liberata dalla sua obbligazione, ma anche in un suo comportamento omissivo, se essa era tenuta ad un “facere” in relazione alla possibilità di avveramento della condizione, come – secondo quanto sopra esposto – può accadere in relazione all’elemento potestativo delle condizioni miste.
Pertanto, nel caso di contratto con una pubblica amministrazione in cui il pagamento del compenso per l’opera professionale pattuita sia subordinato al finanziamento dell’opera progettata da parte di un soggetto terzo al quale l’amministrazione debba richiedere il finanziamento, intendendosi l’amministrazione stipulante coprirsi dal rischio della mancata concessione del finanziamento, essa non può tenere – salvo il sopravvenire di particolari
ragioni ostative – un comportamento che, impedendo il verificarsi del finanziamento, renda inoperante il suo obbligo di pagamento del compenso. Ne deriva che, per ritenere applicabile o non applicabile l’art. 1359 c.c., a seguito del mancato avveramento della condizione su detta il giudice di merito deve accertare se, in base ai doveri gravanti sull’amministrazione contraente in forza dell’art. 1358 c.c. – secondo l’interpretazione datane dalla sopra menzionata sentenza delle sezioni unite di questa Corte – essa si sia attivata per ottenere il finanziamento e le iniziative prese a tal fine corrispondessero “ad uno standard esigibile di buona fede”. Deve quindi accertare, ove non si sia attivata o abbia desistito dall’attivarsi, se ciò possa considerarsi, in relazione alla situazione concretamente determinatasi, conforme agli obblighi nascenti dall’art. 1358 c.c., ovvero se ciò sia ingiustificabile alla stregua di tali obblighi.
In tale secondo caso, dalla violazione del su detto dovere comportamentale conseguono, sia ai sensi dell’art. 1358 il diritto della controparte di chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno (Cass. 18 marzo 2002, n. 3942; 3 aprile 1996, n. 3084; 2 giugno 1992, n. 6676); sia, in alternativa, sulla base della “fictio” prevista dall’art. 1359, il diritto di
chiedere l’adempimento del contratto e quindi il pagamento del compenso pattuito.
2.5. Quanto all’onere della prova circa l’esistenza delle condizioni per l’applicabiltà dell’art. 1359 c.c., va considerato che il contratto sottoposto a condizione sospensiva si perfeziona immediatamente – anche se è inefficace fino a quando la condizione non si avveri, mentre cessa di esistere se la condizione non si avvera – e durante il periodo di pendenza le parti si trovano in una posizione di aspettativa che è fonte di effetti preliminari. In particolare, in pendenza della condizione sospensiva il contratto a prestazioni corrispettive vincola i contraenti al puntuale ed esatto adempimento delle obbligazionì rispettivamente assunte, comprese quelle strumentali rispetto al verificarsi della condizione nascenti dall’applicazione dei principi ricavabili dall’art. 1358 c.c., la cui violazione, come si è detto, può dar luogo a risoluzione per inadempimento alla specifica obbligazione di ciascun contraente di comportarsi in pendenza della condizione secondo buona fede.
La violazione di tale obbligazione, pertanto, da luogo a responsabilità contrattuale ed è regolata dai relativi principi. Risulta conseguentemente applicabile anche in tale caso il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. un. 30 ottobre 2001, n. 13533 e successivamente, ex multis, Cass. 13 giugno 2006, n. 8615 e Cass. 12 febbraio 2010, n. 3373) secondo il quale il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale e il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, deve solo provare la fonte del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione dell’inadempimento della
controparte, mentre è il debitore a dovere provare l’adempimento della propria obbligazione e quindi, nel caso di specie, di quella nascente, in base al contratto, dall’art. 1358 c.c..
Ne deriva che, nel caso di contratto con una pubblica amministrazione in cui il pagamento del compenso per l’opera professionale pattuita sia subordinato alla circostanza che essa ottenesse un finanziamento dell’opera progettata da parte di un soggetto terzo, il creditore della prestazione deve unicamente provare il contratto, mentre sarà l’amministrazione debitrice “sub condicione” del compenso a dovere dimostrare, in relazione ai suoi doveri
nascenti dall’art. 1358 c.c., riguardo al comportamento che doveva tenere al fine del finanziamento, che il proprio comportamento fu conforme a detti doveri secondo i principi sopra esposti.
2.6. Deriva da quanto sopra che la sentenza impugnata, nell’affermare che nel caso di specie era irrilevante stabilire se il mancato finanziamento dell’opera da parte della Regione fosse dipeso o meno dalla condotta dell’amministrazione comunale, si fonda sull’affermazione del tutto apodittica circa l’inesistenza di un interesse della pubblica amministrazione contrario all’avveramento della condizione, non correlata con la corretta
interpretazione dell’art. 1359 c.c., nonchè sull’erronea affermazione dell’inesistenza, nella condizione mista, di quegli obblighi comportamentali viceversa derivanti, secondo quanto sopra esposto, al soggetto passivo dell’obbligazione sottoposta a tale condizione dall’art. 1358 c.c..
Pertanto il primo motivo deve essere accolto.
3.1. Va invece rigettato il secondo motivo, con il quale infondatamente si censura la sentenza della Corte d’appello per avere ritenuto che l’attore non poteva esperire l’azione sull’arricchimento senza causa essendo tale azione residuale, risultando, sulla base di quanto sopra detto circa l’esistenza di altre azioni esperibili, la relativa statuizione conforme al disposto dell’art. 2042 c.c..
4.1. La sentenza va quindi cassata in relazione all’accoglimento del primo motivo con rinvio della causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Palermo in diversa composizione, che farà applicazione dei sopra esposti principi di diritto.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE Accoglie il primo motivo. Rigetta il secondo. Cassa la
sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Palermo in diversa composizione.