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No profit: la vendita sporadica può “disarcionare” l’agevolazione – Cassazione Civile, Sentenza 21875/2010

Le rare lezioni di equitazione rese a pagamento, non essendo per il Fisco istituzionali, sono imponibili

Agevolazioni fiscali revocate alle associazioni senza scopo di lucro che vendono sporadicamente servizi a terzi. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 21875 del 26 ottobre, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, rovesciando la decisione della Commissione tributaria regionale.

Il fatto
Il caso riguarda una scuderia costituita sotto forma di Associazione no profit, nella quale, oltre alle attività riservate ai soci, venivano saltuariamente impartite lezioni di equitazione e ricoveri di cavalli a pagamento.
Per tale circostanza, l’ufficio aveva notificato all’ente un avviso di accertamento in materia di Irpeg, Irap e Iva, contestando l’esercizio di attività imprenditoriale non dichiarata. In particolare, l’atto impositivo era scaturito da un processo verbale di constatazione della Guardia di finanza che, nel corso di una verifica ispettiva, aveva rilevato in contabilità avvenuti pagamenti per lezioni di equitazione.

La scuderia si è opposta alla pretesa sostenendo che, in base al proprio statuto, doveva essere applicato il regime agevolativo per le associazioni non aventi finalità lucrative, ma la pretesa non ha trovato accoglimento in primo grado, il cui giudizio è stato ribaltato in appello, laddove la Commissione regionale ha ritenuto che i modesti compensi, percepiti dal no profit per lezioni di equitazione e ricovero di cavalli, non inficiassero la finalità non commerciale cristallizzata nello statuto.

L’Amministrazione finanziaria ricorre per Cassazione con articolati motivi con i quali, sostanzialmente, sostiene:
•violazione di legge per non avere il giudice di appello tenuto conto che, ai sensi dell’articolo 148 del Dpr 917/1986, le previsioni agevolative si applicano se l’associazione rispetta in concreto le condizioni previste nel comma 8 (tra queste, primeggiano quelle che impongono l’obbligo di assicurare concretamente agli associati l’effettiva partecipazione alla vita associativa dell’ente). In tal modo, la Commissione regionale ha anche omesso di valorizzare gli altri contenuti dello stesso articolo 148 del Tuir, che condizionano il trattamento agevolato alle prestazioni di servizi effettuate solo in favore degli associati
•violazione dei principi generali del contenzioso tributario (articoli 1 e 2 del Dlgs 546/1992), poiché la sentenza opposta ha omesso di procedere a una rideterminazione dell’accertamento che tenesse conto delle prestazioni a pagamento rese dall’Associazione a non associati, riconoscendo almeno la loro indiscutibile natura commerciale.

Il tutto accompagnato da denuncia di vizi motivazionali dato che, nell’affermare la sporadicità delle prestazioni di servizi a estranei dietro corrispettivo, da parte dell’associazione, la Ctr ha omesso di indicare, ex articolo 2697 del codice civile, gli elementi probatori su cui tale postulato si fondava.

La sentenza
La sezione tributaria della Corte di cassazione ha pienamente condiviso le doglianze oppositive, trovando facilitato il percorso argomentativo perché contrassegnato dall’indiscussa circostanza dell’avvenuta effettuazione (anche) a non soci di prestazioni di servizi – ancorché minime – remunerate.

Da qui l’affermazione, innanzitutto, che in tema di imposta sul reddito delle persone giuridiche, gli enti di tipo associativo non godono di uno status di “extrafiscalità”, che li esenta per definizione da ogni prelievo fiscale, potendo anche le associazioni senza fini di lucro svolgere, di fatto, attività a carattere commerciale.
D’altro canto, il disposto dell’articolo 111, comma 1, dello stesso Tuir – per cui le attività svolte dagli enti associativi a favore degli associati non sono considerate commerciali e le quote associative non concorrono a formare il reddito complessivo, senza attribuire alcuna rilevanza decisiva alle finalità indicate negli statuti di tali soggetti – costituisce una deroga alla disciplina generale fissata dai precedenti articoli 86 e 87, secondo la quale l’Irpeg si applica a tutti i redditi, in denaro o in natura, posseduti da soggetti diversi dalle persone fisiche.

Peraltro, la sentenza impugnata radica le proprie trame argomentative sulla assiomatica attribuzione di “assenza di fini di lucro” all’associazione, in virtù dell’elemento strutturale del proprio inquadramento giuridico: sulla base di questa sola circostanza, astrattamente considerata, il giudice di merito giunge ad affermare che le prestazioni rese da associazioni non lucrative, quale è quella in causa, non possono considerarsi di natura commerciale. Il giudice mostra così di ritenere che la “natura non commerciale” dell’ente implicherebbe necessariamente la “natura non commerciale dell’attività” svolta, senza che si debba accertare in concreto il tipo (e le modalità di svolgimento) dell’attività effettiva: mentre è ben possibile l’esercizio di attività commerciali da parte di “enti non commerciali” (ovviamente con l’applicazione a tali attività del regime fiscale cui le stesse sono comunemente soggette – cfr Cassazione, sentenze nn. 22598/2006, 15191/2006 e 19009/2005).

Tant’è che gli articoli 108, comma 1, secondo periodo, e 111, comma 2, del Tuir escludono (per gli “enti non commerciali”) che possano considerarsi “attività commerciali”, rispettivamente, “le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 del codice civile rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione” e le prestazioni di servizi agli associati o partecipanti effettuate senza che, rispetto a esse, vi sia il “pagamento di corrispettivi specifici, compresi i contributi e le quote supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto”. Anche ai fini Iva l’articolo 4, comma 4, del Dpr 633/1972, prevede che rispetto agli “enti non commerciali” (alle associazioni, in particolare), si considerano fatte nell’esercizio di attività commerciali “le prestazioni di servizi ai soci, associati o partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, o di contributi supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto”, salvo che si tratti di prestazioni “effettuate in conformità alle finalità istituzionali” (Cassazione, sentenze nn. 25463/2008 e 20073/2005).

In definitiva, il sistema normativo appare con tutta evidenza privilegiare, ai fini dell’identificazione della disciplina fiscale applicabile, la necessità di una analisi concreta delle singole attività svolte dagli enti non commerciali, escludendo che la “natura non commerciale del soggetto” possa determinare per questo solo fatto, sempre e comunque, la “natura non commerciale della (specifica) attività” (Cassazione, sentenze nn. 7725/2004 e 1367/2004).
Con la conseguenza, che l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano l’esenzione è a carico del soggetto che la invoca, secondo i rituali canoni stabiliti dal richiamato articolo 2697 del codice civile (Cassazione, sentenze nn. 28005/2008, 22598/2006 e 16032/2005).

Nella fattispecie trattata, dette circostanze non soltanto non sono state comprovate dal contribuente, ma appaiono insussistenti alla luce del processo verbale nonché della stessa sentenza impugnata.
In secondo luogo, anche relativamente al lamentato vizio di carenza di motivazione, la Corte regolatrice bacchetta la ratio decidendi della sentenza di secondo grado, circa l’affermazione che l’esiguità delle prestazioni a pagamento in favore di terzi non avrebbe carattere fondante di un’attività di natura lucrativa. Invece, in un caso del genere, sostiene il Collegio, anche se le attività a pagamento erano poche, è innegabile che il prelievo fiscale sussista comunque.

Salvatore Servidio

fonte: fiscooggi.it

 

 

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