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Operazioni inesistenti fatturate: ok all’accertamento su deposizione – Cassazione Civile, Sentenza 21317/2010

Le dichiarazioni rese da terzi nella fase procedimentale sono indizi utilizzabili nel corso del processo

La contestazione di utilizzo di fatture relative a operazioni inesistenti inverte l’onere della prova sul contribuente. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza 21317 del 15 ottobre, con la quale ha inoltre precisato che il contribuente privato non può contestare la tesi dell’ufficio con prove formali, ma deve dimostrare l’effettiva esistenza delle fatture. Il principio affermato è, quindi, che l’antieconomicità dell’operazione e le dichiarazioni dei clienti dell’azienda sono elementi sufficienti a provare le fatture false, nonostante il divieto di testimonianza nel processo tributario.

Il caso riguarda l’impugnazione di un avviso di accertamento con cui l’ente impositore aveva rettificato il reddito d’impresa di una Srl, sulla base della contabilizzazione di fatture passive ritenute relative a operazioni inesistenti, contestando, in particolare, l’indebita deduzione di costi e detrazione dell’Iva (articoli 75 Dpr 917/1986 e 19 Dpr 633/1972 vigenti ratione temporis). Risultava, infatti, che la ditta noleggiatrice di un mezzo meccanico alla società aveva precedentemente emesso fatture di vendita dello stesso mezzo a un’impresa terza, anteriormente quindi alla conclusione del contratto di noleggio, come risultava anche sullabase di dichiarazioni rilasciate alla Guardia di finanza dal titolare della cessionaria.

Sia la Commissione tributaria provinciale sia quella regionale rigettavano l’opposizione del contribuente, assumendo come parametro di riferimento, per provare la falsa fatturazione, da un lato, l’antieconomicità dell’operazione (in particolare l’affitto della macchina che risultava venduta), dall’altro, le dichiarazioni rese dall’acquirente che l’avrebbe comprata, senza che la stessa fosse poi venuta in possesso di altri operatori.

La società proponeva ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per violazione di legge (articolo 39, comma 1, lettere c) e d), Dpr 600/1973), e vizi di motivazione circa gli aspetti probatori concernenti l’utilizzazione di fatture relative a operazioni fittizie:
•in primo luogo, perché il secondo giudice, ai fini della verifica della fondatezza dell’accertamento, avrebbe privilegiato le dichiarazioni del terzo rispetto alle risultanze della propria contabilità regolare, addossando così al contribuente invece che all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare l’effettività delle operazioni
•in secondo luogo, perché la Commissione del riesame ha ritenuto che la società non avrebbe suffragato la propria prospettiva con prove tangibili, pervenendo così a un’inammissibile inversione dell’onere della prova a suo carico.

Sostanzialmente, il ricorso della società ripropone all’attenzione della Cassazione la delicata questione dell’incidenza dell’onere della prova, e dei relativi mezzi istruttori cui può farsi ricorso, ove l’Amministrazione, partendo dai conteggi relativi all’Iva, contesti l’esistenza di talune operazioni economiche esposte dal contribuente.

La sentenza
Anche in terzo grado vengono rigettate le censure principali promosse dalla ricorrente, per completa erroneità e confliggenza con i consolidati profili interpretativi di legittimità inerenti la distribuzione dell’onere della prova in materia di utilizzo di fatture relative a operazioni inesistenti (articolo 21, comma 7, Dpr 633/1972).
E’ stato, infatti, ripetutamente affermato al riguardo (cfr Cassazione, sentenze 5476/2010, 3389/2010, 21953/2007, 1727/2007, 24200/2006, 16032/2005 e 3526/2002) che, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione d’imposta, derivante da fatture false (ex articolo 19, Dpr 633/1972), la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente mediante l’esibizione dei documenti contabili legittimanti il diritto vantato (si ricorda, peraltro, che per l’integrazione del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è sufficiente che siano inserite nella contabilità aziendale le fatture ideologicamente false e che venga presentata la dichiarazione annuale con l’indicazione di elementi passivi fittizi; così la Cassazione con la sentenza 32525/2010).

Si è specificato, in particolare, che nell’ipotesi di fatture considerate relative a operazioni non veritiere, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma compete all’Amministrazione, che adduce la falsità dei documenti e, quindi l’esistenza di un maggiore imponibile, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è stata mai posta in essere (Cassazione 1092/1997).
Di converso, è altrettanto vero, così da costituirne eguale profilo consolidato, che l’onere per il contribuente di provare la veridicità delle fatture scatta quando gli organi di controllo fiscale adducono elementi che fanno almeno sospettare della non veridicità delle stesse operazioni (Cassazione, sentenze 8478/2010, 15395/2008, 1057/2008 e 17799/2007).
Ciò, senza ovviamente trascurare di considerare che la fattura è documento idoneo ad attestare un costo dell’impresa, come si evince chiaramente dall’articolo 21 del Dpr sull’Iva, che prescrive, tra l’altro, l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo di ogni operazione commerciale (Cassazione, sentenze 27341/2005 e 18710/2005).

D’altronde, la giurisprudenza della Suprema corte è ferma nell’affermare che “la correttezza formale della contabilità non può diventare un alibi per commettere ogni possibile violazione delle leggi fiscali” (sentenze 19109/2005 e 4046/2007), per cui, qualora l’Amministrazione contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture e fornisca attendibili riscontri indiziari sull’inesistenza delle operazioni fatturate, è onere del contribuente dimostrare l’effettiva realizzazione dei costi sostenuti, non assumendo rilievo neppure l’asserita “buona fede” (Cassazione, sentenza 6620/2009).

La Corte regolatrice sottolinea, quindi, che a fronte della fondatezza della contestazione dell’inesistenza delle operazioni fatturate e della conseguente traslazione dell’onere della prova a carico del contribuente, quest’ultimo non può limitarsi a opporre una mera documentazione formale, “la quale costituisce un aspetto del meccanismo elusivo”, ma dovrà, a sua volta, allegare elementi di prova in grado di dimostrarne la loro effettiva esistenza (in tema, è stato ritenuto che l’estrema genericità delle fatture che non precisano quali e quante delle svariate prestazioni previste dal contratto siano state effettuate, la mancanza di ogni altra documentazione e il collegamento tra due società, sono solidi elementi presuntivi per considerare inesistenti le operazioni o di valore molto eccedente quello effettivo – Cassazione, ordinanza 12395/2010).

Nel caso in esame, il giudice d’appello ha peccato di sola sinteticità della motivazione, ma tale connotato non ha minimamente inciso sulla congruità della stessa nel rispettare i principi enunciati in materia, come emerge dall’irrefutabile riconoscimento del mancato assolvimento da parte della ricorrente dell’onere della prova, soprattutto evidente laddove si consideri che la ditta cedente non poteva noleggiare – se non simulatamente – l’autogru che aveva in precedenza ceduto a terzi. Perdendone il possesso. Circostanza, questa, rafforzata dalla dichiarazione dell’acquirente.
Elementi e indizi che depongono tutti per la convalida dell’inesistenza delle operazioni in argomento.

Un parere della Consulta
E’ doveroso ricordare che, con sentenza 18/2000, la Corte costituzionale si è pronunciata – dichiarandola inammissibile – sulla questione di legittimità dell’articolo 7, commi 1 e 4, del Dlgs 546/1992 in riferimento agli articoli 3, 24 e 53 della Costituzione, nella parte in cui esclude l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario. Tale pronuncia rigetta l’opinione secondo cui il disposto del detto articolo 7 configuri una lesione del principio di eguaglianza, realizzando la violazione del diritto di difesa di quella parte del procedimento tributario che si trovi nella condizione di dover dimostrare un fatto, ritenuto rilevante ai fini della decisione, non suscettibile di essere provato con modalità diverse da quelle fondate sull’utilizzo della prova testimoniale.
La sentenza è basata sulla considerazione che non esiste un principio, costituzionalmente garantito, diretto a realizzare l’uniformità delle regole processuali in relazione alle differenti tipologie di processo contemplate dall’ordinamento, da ciò ne deriva che la scelta del legislatore, di escludere dal contenzioso tributario la prova testimoniale, trova giustificazione, per un verso, nella specificità di quest’ultimo rispetto al rito civile e a quello amministrativo e, per altro verso, nella circostanza che il processo tributario è ancora, in massima parte, scritto e documentale soprattutto sul piano istruttorio.

In tale contesto, la Consulta ha comunque chiarito che il divieto di prova testimoniale non contrasta con la possibilità di utilizzare, in sede processuale, le dichiarazioni di terzi acquisite nella fase procedimentale.
Sicché la Cassazione ha argomentato, da ultimo con la sentenza 5746/2010, che nel processo tributario, le dichiarazioni di soggetti terzi rispetto al rapporto contribuente-Erario sono elementi indiziari utilizzabili come prova testimoniale.

Salvatore Servidio

fonte: fiscooggi.it

 

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