Processo tributario. Le censure alle consulenze tecniche rilevanti solo quando argomentate – Cassazione Civile, Sentenza 18514/2010
Per contestare gli esiti di una consulenza tecnica, della quale il giudice tributario abbia tenuto conto per la decisione della controversia, non è sufficiente la generica doglianza che il giudicante non ha tenuto conto di alcune delle conclusioni peritali.
Per evitare il verificarsi di una mera contrapposizione fra la propria opinione e quella del giudicante o la inammissibile proposta di revisione di un giudizio di mero fatto, è necessario che la censura che si intende far valere si sostanzi nella trascrizione nel ricorso di quei passi dell’elaborato peritale che renderebbero evidente la pretesa omissione di giudizio, nonché delle relative critiche alla sentenza che si contesta.
Così ha concluso la Cassazione con la sentenza 18514/2010, che ha rigettato il ricorso della parte privata, tra l’altro, per genericità e mancanza di autosufficienza dei motivi sollevati in sede di legittimità.
La vicenda processuale
Due coniugi, esercenti un’impresa familiare di pasticceria e bar, impugnavano con successivi ricorsi gli avvisi di accertamento con cui l’ex Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Susa aveva richiesto, a seguito d’indagini bancarie svolte dalla Guardia di finanza, il pagamento di maggiori somme a titolo di Irpef per l’anno 1993.
La sentenza della Ctp di Torino, che aveva parzialmente accolto i ricorsi riuniti riducendo il maggior reddito accertato, veniva confermata, a seguito di appello dei contribuenti, dal giudice tributario regionale.
Contro la sentenza di secondo grado, gli interessati proponevano ricorso davanti alla Suprema corte, che cassava la pronuncia impugnata, rinviando la causa ad altra sezione della stessa Commissione regionale.
Il giudice del rinvio accoglieva parzialmente l’appello, rideterminando il reddito accertato dall’ufficio, previo esperimento di consulenza tecnica disposta per determinare, anche in base alla documentazione offerta dai contribuenti e acquisita agli atti, i movimenti bancari sicuramente riconducibili all’attività di impresa e quindi significativi al fine dell’accertamento del reddito.
Contro quest’ultima sentenza, i contribuenti ricorrevano al giudice di legittimità, con gravame articolato su nove motivi.
Per quanto di interesse in questa sede, la parte privata sosteneva in primis che alcuni dei prelevamenti bancari ritenuti dal consulente tecnico d’ufficio non afferenti all’attività e al reddito d’impresa non erano stati considerati tali dal giudice, che pure si era adeguato agli esiti della relazione peritale; in seconda battuta, lamentava l’omessa motivazione sul rigetto dell’eccezione di non imputabilità al reddito d’impresa di somme versate durante i periodi di chiusura dell’esercizio.
La sentenza della Cassazione
Con la sentenza in rassegna, la Suprema corte ha rigettato il ricorso condannando altresì i ricorrenti al pagamento in favore dell’amministrazione finanziaria delle spese del grado di legittimità, liquidate in oltre 5mila euro, più le spese generali e gli accessori di legge.
In particolare, nel ricostruire la fattispecie, i giudici di piazza Cavour partono dalla constatazione che la sentenza impugnata aveva rideterminato il reddito accertato dall’ufficio in base alle conclusioni del Ctu che, tra tutti i movimenti bancari sui quali si era basato il recupero d’imposta, ne aveva evidenziati alcuni relativi a operazioni non riconducibili alla gestione dell’impresa e altri presuntivamente attribuibili a soggetti diversi dall’imprenditore, e quindi non imponibili.
Di contro, il medesimo consulente aveva ritenuto di non poter escludere dal reddito tassabile altre somme che l’interessato aveva affermato provenire da donazioni di una parente poi defunta e da asseriti rimborsi di prestiti, senza peraltro offrire elementi e/o documenti idonei a giustificare, in via presuntiva, l’effettiva sussistenza o comunque l’esclusione dalle movimentazioni recuperate a tassazione per l’anno in contesa.
Di tali circostanze, si legge nella pronuncia, la Ctu aveva dato conto, precisando che, mancando in atti ogni documento dal quale dedurre con apprezzabile certezza la provenienza e la causale di dette operazioni, difettavano dati ed elementi dai quali dedurre presuntivamente la loro estraneità all’attività propria degli interessati.
La Corte ha quindi dichiarato inammissibile, per genericità e mancanza di autosufficienza, il riferito primo motivo di censura.
Infatti, secondo i giudici, a fronte di “una pronunzia interamente basata sulle risultanze della consulenza, apprezzata dal giudicante per avere ‘consentito una ricostruzione dettagliata delle fonti’ del reddito, così da permettere l’esclusione certa o presuntiva di alcune voci e l’inclusione di altre”, non è sufficiente la generica doglianza che il giudicante a quo non avrebbe dato alcun peso alle conclusioni peritali sulla irrilevanza di alcuni prelevamenti ai fini del recupero d’imposta.
In questi casi, chiarisce la Suprema corte, per evitare la mera contrapposizione della propria opinione con quella del giudicante o l’inammissibile proposta di revisione di un giudizio di mero fatto, è necessario che la censura che si intende far valere “sia sostanziata dalla trascrizione nel ricorso di quei passi dell’elaborato peritale che renderebbero evidente la pretesa omissione di giudizio, e delle relative critiche che il giudicante a quo non avrebbe considerato (Cass. nn. 18688/2007, 13845/2007, 4885/2006 ed altre)…”.
Quanto all’asserito difetto di motivazione della pronuncia della Ctr sul rigetto dell’eccezione di non imputabilità al reddito d’impresa di somme versate durante i periodi di chiusura dell’esercizio, la Cassazione rileva che il giudice regionale, avendo conferito al consulente l’indagine contabile sulla documentazione bancaria, e avendo ottenuto una ricostruzione dettagliata delle voci riconducibili a reddito d’impresa, aveva ben potuto discernere, sottraendole dall’imponibile, tutte e soltanto quelle ritenute estranee “assumendo invece, logicamente, tutte le altre come costitutive di tale reddito”.
D’altra parte, conclude la sentenza, il giudice di merito non è tenuto a motivare specificamente il rigetto di ogni singola difesa “quando le argomentazioni usate sono congrue e sufficienti, di per sé, a sostenere la decisione (Cass. nn. 11193/2007, 5235/2001)”.
Considerazioni
Ai sensi dell’articolo 7, comma 2, del Dlgs 546/1992, le Commissioni tributarie “quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità” possono, tra l’altro, disporre una consulenza tecnica, istituto rispetto al quale trovano applicazione le specifiche norme dettate dal codice di procedura civile, ossia gli articoli da 62 a 64 e da 191 a 201, tranne alcune esclusioni (vedi circolare 98/1996).
In particolare, in base all’articolo 201 cpc, le parti possono nominare un proprio consulente tecnico, il quale, oltre ad assistere alle operazioni del consulente del giudice, “partecipa all’udienza e alla camera di consiglio ogni volta che interviene il consulente del giudice, per chiarire e svolgere, con l’autorizzazione del presidente, le sue osservazioni sui risultati delle indagini tecniche”.
Nell’ambito dell’istruzione probatoria, peraltro, la consulenza tecnica è un procedimento “di integrazione della prova” e non un mezzo di prova in senso stretto: di conseguenza, la parte onerata di provare i fatti costitutivi del diritto che fa valere in giudizio non può pretendere di fornire la prova ricorrendo alla Ctu.
In sostanza, la consulenza tecnica, lungi dal supplire alle carenze istruttorie di una delle parti, serve piuttosto per valutare tecnicamente i dati oggettivi già acquisiti agli atti di causa, senza che le parti possano sottrarsi al proprio onere probatorio: in concreto, ciascuno dei contendenti in giudizio dovrà aver già dedotto i fatti che pone a fondamento delle sue pretese, fatti che il giudice rimetterà alla valutazione del consulente, quando ritenga di non essere in grado di procedere direttamente.
Alla luce del quadro suesposto, la sentenza in rassegna ha fornito un importante apporto interpretativo, chiarendo che, anche in ambito tributario, le risultanze peritali di cui il giudice si sia avvalso per la decisione del caso sottoposto al suo esame vanno contestate in modo specifico e puntuale, non essendo ammesse generiche doglianze.
Più precisamente, come già illustrato in precedenza, le censure che si intendono sollevare, per poter essere considerate rilevanti, debbono sostanziarsi nella trascrizione nel ricorso sia dei passaggi della consulenza tecnica che rendano evidente l’asserita omissione o inesattezza di giudizio, sia delle critiche alla sentenza che si intende contestare.
Massimo Cancedda
fonte: fiscooggi.it