Senza il deposito della nota spese è inammissibile l’appello sulla liquidazione dei compensi professionali – Cassazione Sentenza n. 20797/2010
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 20797 del 07/10/2010
Gli avvocati devono essere particolarmente attenti e depositare la nota spese delle competenze professionali maturate nel corso del giudizio. In mancanza, non potranno impugnare la sentenza sul capo relativo alla liquidazione operata d’ufficio dal giudice.
E’ quanto ha stabilito la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza n. 20797 depositata lo scorso 7 ottobre 2010.
Secondo la Cassazione la parte che censuri la sentenza di primo grado con riguardo alla liquidazione delle spese di giudizio, lamentando la violazione dei minimi previsti dalla tariffa professionale, ha l’onere di fornire al giudice d’appello gli elementi essenziali per la rideterminazione del compenso dovuto al professionista, indicando, in maniera specifica, gli importi e le singole voci riportate nella nota spese prodotta in primo grado; né tali indicazioni possono essere desunte da note o memorie illustrative successive, la cui funzione non è quella di formulare censure ma solo quella di chiarire le censure tempestivamente formulate.
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 20797 del 07/10/2010
FATTO
Con sentenza del 9 aprile 2001 il Tribunale di Palmi, in funzione di giudice del lavoro, nel condannare l’INPS al pagamento in favore delle odierne ricorrenti delle somme corrispondenti all’adeguamento della indennità di disoccupazione percepita nella misura di lire 800 giornaliere, per gli anni da loro indicati, attribuiva le spese di giudizio, dovute dall’INPS, al difensore della ricorrente, ai sensi dell’art. 93 c.p.c., liquidandole in complessive lire 760.000.
La Corte d’appello di Reggio Calabria, con la sentenza indicata in epigrafe, pronunciando sull’appello delle lavoratrici in ordine alla liquidazione delle spese, premesso che le medesime – nel giudizio di primo grado – non avevano ritualmente prodotto alcuna nota spese, ha ritenuto la inammissibilità del gravame, per la mancata specificazione degli esborsi asseritamente non riconosciuti e delle voci di tariffa, per le quali sarebbero stati violati gli importi previsti come minimi, considerando altresì che le ricorrenti non avevano indicato il valore della causa ai fini della liquidazione delle spese, mentre avevano tardivamente indicato – solo con le note di udienza – le voci di tariffa che, a loro dire, andavano riconosciute; e ha compensato fra le parti le spese del giudizio d’appello.
La cassazione della sentenza è richiesta dalle lavoratrici con ricorso basato su quattro motivi, illustrati con memoria.
L’INPS ha depositato procura ai difensori.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 112, 91 c.p.c. e vizio di motivazione. Si deduce che erroneamente la sentenza impugnata abbia ritenuto l’omesso deposito della nota spese nel giudizio di primo grado, che, al contrario, la nota spese era stata prodotta all’udienza di discussione, essendo anche menzionata nel relativo verbale.
Il secondo motivo denuncia omessa pronuncia e carenza assoluta di motivazione, o comunque contraddittorietà ed erroneità manifesta della medesima, nonché violazione degli artt. 434 e 342 c.p.c., sostenendosi che le censure sollevate con l’atto di appello erano specifiche ed erano state anche illustrate con successive note difensive e che, peraltro, il giudice d’appello avrebbe dovuto d’ufficio determinare il valore della causa e verificare per ciascuna voce della nota spese il rispetto dei minimi tariffari.
Il terzo motivo denuncia, unitamente a vizio di motivazione, violazione e falsa applicazione dell’art. 24 l. 13 giugno 1942. Si lamenta che la Corte di merito abbia considerato generica la censura proposta sulla liquidazione delle spese del giudizio di primo grado, senza considerare che le ricorrenti avevano tempestivamente precisato il valore della causa; d’altra parte il giudice di appello avrebbe dovuto controllare la esattezza della liquidazione effettuata dal Tribunale, essendo stata oggetto di motivo di gravame.
Il quarto motivo denuncia violazione dei citati artt. 434 e 342 c.p.c. e carenza di motivazione. Si lamenta che la sentenza impugnata abbia erroneamente travisato la funzione propria del giudizio d’appello, configurando, in relazione alla censura sulla liquidazione delle spese, un onere – non previsto dalla legge – di specificazione delle singole voci di tariffa anche in presenza di una evidente violazione dei minimi di tariffa e di una precisa indicazione, nell’atto di appello, del valore della causa e dell’importo degli onorari e dei diritti.
Il secondo, il terzo e il quarto motivo, da esaminare congiuntamente in via prioritaria, sono infondati alla stregua dell’orientamento espresso da questa Corte in analoghe controversie (cfr. Cass. n. 20088 del 2008; n. 23085 del 2008, e altre conformi), al quale il Collegio intende dare continuità (così superandosi l’indirizzo di cui ad altre pronunce: cfr. Cass. n. 3137 del 2009 e altre, emesse in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.).
Ed infatti è pur vero che in materia di liquidazione degli onorari agli avvocati il giudice d’appello, in presenza di contestazioni sul valore della causa e quindi della tariffa applicabile, nonché dei criteri di applicazione delle voci liquidate a titolo di onorari e di diritti, non può limitarsi ad una generica conferma della liquidazione globale imposta dal primo giudice, ma deve rideterminare, in presenza di una nota specifica prodotta in primo grado dalla parte vittoriosa, l’ammontare del compenso dovuto al professionista, specificando il sistema di liquidazione adottato e la tariffa professionale applicabile alla controversia, onde consentire l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e dalle tariffe, anche in relazione all’inderogabilità dei minimi e dei massimi tariffari (Cass. n. 21932 del 2006); ma qui la Corte territoriale, sul presupposto che la censura in appello riguardava esclusivamente la violazione dei minimi tariffari, ha ritenuto la genericità della medesima in quanto non specificata con l’indicazione degli importi nonché delle singole voci riportate nella nota spese. E, d’altra parte, in questa sede di legittimità le ricorrenti non hanno puntualmente censurato tale accertamento contenuto nella sentenza qui impugnata.
Né maggiore specificità poteva ricavarsi da note illustrative successive, dovendosi precisare che la funzione di note e memorie non è quella di formulare censure ma solo quella di chiarire le censure già tempestivamente formulate (Cass. n. 2012 del 1995, Cass. n. 24817 del 2005, Cass. n. 20088 del 2008 cit.).
In conclusione, deve ritenersi che la parte che censuri la sentenza di primo grado con riguardo alla liquidazione delle spese di giudizio, lamentando la violazione dei minimi previsti dalla tariffa professionale, ha l’onere di fornire al giudice d’appello gli elementi essenziali per la rideterminazione del compenso dovuto al professionista, indicando, in maniera specifica, gli importi e le singole voci riportate nella nota spese prodotta in primo grado; né tali indicazioni possono essere desunte da note o memorie illustrative successive, la cui funzione non è quella di formulare censure ma solo quella di chiarire le censure tempestivamente formulate.
Resta assorbito il primo motivo relativo alla produzione della nota spese nel giudizio di primo grado.
In conclusione, il ricorso è rigettato.
Non si deve provvedere al regolamento delle spese del presente giudizio, in applicazione dell’art. 152 disp. att. c.p.c. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche di cui alla l. n. 326 del 2003).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
depositata in cancelleria il 7 ottobre 2010