L’adesione alla definizione agevolata dell’Iva non mette al riparo dai reati fiscali
Commento a Cassazione Penale, Sentenza n. 34871 del 27/09/2010 – di Salvatore Servidio
L’adesione alla definizione agevolata dell’Iva non mette al riparo dai reati fiscali. L’inefficacia della sanatoria, già sancita ai fini tributari dalla Corte di giustizia Ue e, più recentemente, dalle sezioni unite della Cassazione, si estende anche ai reati tributari.
A precisarlo è la Suprema corte con la sentenza 34871 del 27 settembre. Per trasposizione, i giudici di legittimità applicano all’illecito la giurisprudenza comunitaria che ha bocciato il condono.
Il caso riguarda un procedimento penale nei confronti dei rappresentati legali di una società in nome collettivo, per il concorso nel reato di cui all’articolo 5 del Dlgs 74/2000, per avere omesso la presentazione del modello Unico relativo all’anno 2001, evadendo le imposte sui redditi e sul valore aggiunto per un importo superiore alla soglia di punibilità (77.468 euro), prevista dalla fattispecie criminosa.
La società aveva tuttavia presentato le dichiarazioni Iva periodiche (allora dovute), ma non aveva tenuto le scritture obbligatorie. Gli interessati sostenevano che la contabilità era stata rinvenuta dai soci per essere spostata, dopo il trasferimento della sede sociale, in un magazzino a loro inaccessibile.
I contribuenti, dopo il primo grado sfavorevole, si erano difesi in appello eccependo, innanzitutto, l’adesione al condono e quindi lamentando che la quantificazione dell’imposta evasa fosse stata eseguita dall’ufficio senza considerare gli elementi negativi di reddito sostenuti.
Al contrario, l’ente impositore ha rappresentato che il condono effettuato non era valido a coprire anche le violazioni penali, trattandosi di dichiarazione in sanatoria erroneamente compilata nelle integrazioni del periodo di imposta.
Avverso il secondo giudicato confermativo, gli imputati hanno presentato ricorso per Cassazione nei cui motivi denunciano la sentenza impugnata per:
•inesatta interpretazione della normativa sul condono da parte della Corte territoriale, poiché dal combinato disposto degli articoli 7 e 8 della legge 289/2002 con la legge di proroga 350/2003, il contribuente avrebbe comunque “salvato”, presentando due istanze, l’omessa dichiarazione Iva per l’anno in questione. In particolare, partendo dal presupposto che, in base all’articolo 8 della legge 289/2002, era già stata sanata l’omessa dichiarazione annuale e siccome la società si è avvalsa anche del “concordato di massa”, di cui alla legge 350/2003, non sussisteva più alcuna causa ostativa alla chiusura delle pendenze tributarie, infrazioni penali comprese
•violazione dell’articolo 5 del Dlgs 74/2000, per avere la Corte d’appello ritenuto configurabile il reato sulla base di criteri meramente presuntivi, senza tenere conto dei costi sostenuti dalla società e della mera negligenza nella custodia delle scritture contabili.
La decisione
La sezione penale della Cassazione ritiene infondati tutti i profili di denuncia, rilevando innanzitutto che con il versamento di soli 300 euro di tributo per l'”integrativa semplice”, di cui all’articolo 8 della legge 289, la sanatoria non è operante. Ciò in quanto, non avendo la società indicato alcun reddito imponibile nella dichiarazione annuale perché omessa, cioè non avendo reso possibile la determinazione dell’imposta da versare in sanatoria, la liquidazione con il detto versamento rende inefficace la sanatoria stessa.
Allorché il contribuente – spiega la Corte – si limiti a eseguire il versamento in tale misura, senza indicare gli imponibili oggetto d’integrazione, non si ha diritto al beneficio della franchigia e l’annualità è soggetta ad accertamento nei più ampi termini previsti dall’articolo 10 della stessa legge 289. Infatti, il comma 6 dell’articolo 8 dispone, espressamente, che gli effetti preclusivi prodotti dall’integrazione degli imponibili per gli anni pregressi (preclusione di ogni accertamento tributario o contributivo, estinzione sanzioni, non punibilità), si producono per ciascuna annualità limitatamente ai maggiori imponibili, alla maggiore imposta sul valore aggiunto ovvero alle maggiori ritenute risultanti dalle dichiarazioni integrative aumentati della franchigia. Di conseguenza, venendo a mancare, nel caso di specie, l’operatività della franchigia, non si verificano per l’effetto neppure le preclusioni indicate dalla norma.
Anche la richiesta del concordato di massa per la medesima annualità, aggiunge la Corte, finisce col risultare inammissibile, in quanto l’omessa presentazione della dichiarazione o la presentazione senza l’indicazione del reddito d’impresa, era esplicitamente prevista quale causa di esclusione dal condono (articolo 7, comma 3, lettera a), della legge 350/2003).
In definitiva, la mancanza dei due presupposti essenziali per la fruizione della sanatoria (omessa presentazione della dichiarazione annuale e mancata indicazione del reddito imponibile), rendono di conseguenza legittima l’esclusione della sanatoria operata dall’ufficio.
La Suprema corte ha evidenziato al riguardo che, pur volendo per ipotesi considerare valida la definizione, la problematica doveva ritenersi comunque superata nel senso deciso, a seguito delle pronunce della Corte di giustizia europea (sentenza causa C-132/06 del 2008) e delle sezioni unite della Cassazione (sentenza 3674/2010).
Nel primo caso, la Corte di giustizia ha stabilito l’incompatibilità delle disposizioni della legge 289/2002, con il diritto comunitario, per quanto attiene all’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto. Nel secondo, la Cassazione (cfr sentenze 20068 e 20069 del 2009) ha disapplicato la normativa nazionale nell’ambito di controversie aventi a oggetto il provvedimento di diniego del condono emesso nei confronti del contribuente, valutando l’efficacia immediata e diretta della statuizione del giudice comunitario.
In conclusione, dopo l’applicazione di questo principio ai procedimenti tributari (sulla non spettanza del credito Iva derivante da operazioni inesistenti anche in presenza di condono “tombale”, cfr Cassazione sentenza 18942/2010), ora anche in materia penale il condono Iva viene ritenuto inefficace. Circostanza non di poco conto, in quanto gli effetti del decisum potrebbero riverberarsi per le ipotesi di procedimenti penali ancora pendenti in cui il contribuente ha valorizzato la propria difesa sostenendo l’effettuazione della sanatoria Iva.
Per quanto concerne, invece, la quantificazione dell’imposta evasa, la Cassazione ha ribadito l’autonomia del giudice penale nella ricostruzione del quantum, rilevando che, nel caso di specie, il contribuente non aveva addotto alcun elemento documentale, per cui dovevano ritenersi sufficienti gli importi indicati nelle dichiarazioni periodiche Iva a suo tempo presentate. La sentenza rileva, e la circostanza appare interessante, che pur volendo riconoscere i costi evidenziati dall’imputato, l’importo dell’imposta evasa superava comunque la soglia di rilevanza penale per l’omessa presentazione della dichiarazione Iva, la quale deve essere determinata secondo il risultato economico effettivamente conseguito, come risulta dagli accertamenti processuali in merito ai proventi percepiti e i costi deducibili sostenuti.
Peraltro, la società ha neppure documentato l’esistenza di ulteriori spese detraibili Iva, idonee a ricondurre il debito d’imposta al di sotto della soglia di punibilità.
Salvatore Servidio
fonte: fiscooggi.it