Concordato preventivo, dichiarazione di fallimento e principio di consecuzione. Cassazione Civile, Sentenza 18437/2010
Anche dopo la riforma del d.lgs. n. 5 del 2006, in caso di dichiarazione di fallimento che consegua alla previa ammissione del medesimo debitore alla procedura di concordato preventivo, si applica tuttora il principio di consecuzione delle due procedure, con conseguente retrodatazione alla domanda di ammissione al concordato del calcolo degli interessi e della data di opponibilità della compensazione, risultando lo stato di crisi accertato dal tribunale di natura irreversibile, dunque sostanzialmente identico al presupposto dell’insolvenza di cui all’art. 5 legge fallumentare.
Cassazione Civile, Sezione I, Sentenza n. 18437 del 06/08/2010
(Presidente V. Proto, Relatore F.M. Fioretti)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Banca S.S. stipulava, in data 7 giugno 2004, con M.P.. s.r.l un mutuo fondiario ipotecario di euro 1.300.000,00 al tasso annuo variabile indicizzato euribor a tre mesi e con interessi di mora dell’uno per cento in più rispetto al tasso contrattuale.
Il mutuo era garantito, oltre che da ipoteca, anche dal pegno 19.5.2004 di obbligazioni della Banca S.S. con scadenza 15.3.2008 per euro 145.000,00, che avevano maturato cedole al 15.3.2007 per euro 2.251, 13 e al 15.9.2007 per euro 2.710,00, e dal pegno, anch’esso munito di data certa il 19.5.2004, di una polizza vita Assimoco a favore di P. Mirco, scaduta il 3 0.6.2007 con il relativo accredito ricevuto dalla Banca il 23.8.2007 pari ad euro 58.940,00.
La mutuataria, a partire dal 7.3.2007, non aveva provveduto più a pagare le rate scadute di cui 11.500,00 al mese oltre agli interessi al tasso di mora dell’8,35% (tasso contrattuale del 7,35% + mora dell’l% ) dalle singole scadenze, per cui al 25 settembre 2007 la MP. risultava debitrice di euro 1.153.617,99 per capitale, nonché di euro 48.295,50 per interessi contrattuali e di mora decorrenti dal 26.3.2007.
Con ricorso, depositato il 27 febbraio 2007, M.P.. s.r.l presentava richiesta di concordato preventivo, cui veniva ammessa.
Il Tribunale di Venezia, con sentenza depositata il 25 settembre 2007, non essendo state raggiunte le maggioranze richieste dagli artt. 177-178 legge_fallimentare dichiarava la non proseguibilità della procedura per la mancata approvazione del concordato ex art. 178 L.F. ed il fallimento della società MP.
La Banca summenzionata chiedeva allora l’ammissione al passivo per euro 1.201.617,99 di cui ai titoli succitati, oltre agli interessi contrattuali e di mora del 7,35% dal 26 settembre 2007 fino al 7 giugno 2008 e poi legali da tale data fino alla data del progetto di riparto, somma dalla quale chiedeva fossero dedotte, per compensazione, le somme, di cui sopra, di euro 2.251,13, 2.710,78, 58.940,00.
Con decreto del 161.2008 il giudice delegato ammetteva la Banca al passivo fallimentare per “la somma di euro 1.153.617,99 in linea capitale oltre interessi contrattuali al 7,35% fino alla data del 7 giugno 2007 ed interessi legali successivi a detta data e comunque fino alla vendita del bene,” non riconoscendo “la compensazione intervenuta post 27.2.2007 per euro 63.901,91.”
La Banca S.S. proponeva opposizione a detto provvedimento, sostenendo che, essendo venuto meno per effetto della legge n. 80/2005, dei decreti legislativi n. 5/2006 e 169/2007 il principio della consecuzione delle due procedure di concordato preventivo e fallimentare, aveva diritto di ritenere e portare in compensazione con il proprio credito privilegiato le somme derivate dalle cedole nel periodo 15.3.2007/30.6.2007 e che era stato violato il disposto degli artt. 2855 e 2788 cod. civ, avendo il giudice preso in considerazione, ai fini del calcolo degli interessi contrattuali privilegiati dell’anno 2006- 2007 in corso, non il giorno del fallimento, cioè il 25 settembre 2007, ma il 7 giugno 2007, con conseguente riduzione del credito di un anno di interessi contrattuali.
Con decreto 10.7.2008 il Tribunale di Venezia rigettava l’opposizione della Banca, ritenendo applicabile, nel caso di specie, il principio, con conseguente riconoscimento di più ridotti interessi ed esclusione della invocata compensazione, della consecuzione delle due procedure concordataria e fallimentare.
Avverso detto decreto Banca S.S. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi illustrati con memoria. Il Fallimento MP. ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la Banca ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione delle norme di diritto della legge fallimentare ed, in particolare, delle norme della legge n. 80/2005 sostituenti, all’epoca, gli articoli 5, 6, 7, 160, 162, 177, 178, 180, 183 L.F. e poi del D.Lgs. n. 169/2007 e correlativa errata applicazione di pregressi principi giurisprudenziali non più applicabili alla nuova fattispecie decisa dal Tribunale, il tutto con riferimento all’art. 360 c.p.c. co. 1, n, 3.
Secondo la ricorrente il Tribunale avrebbe errato nel retrodatare gli effetti della sentenza di fallimento alla data di presentazione della domanda di concordato ai fini della individuazione dell’anno in corso ex artt. 2855-2788 cc. e del divieto di compensazione ex artt. 55-56 L.F, in quanto non avrebbe tenuto conto che, a seguito della riforma delle procedure fallimentari di cui alla L. n. 80/2005 e al D.Lgs. n. 169/2007, non sarebbero più applicabili, nella ipotesi in cui venga dichiarata l’inammissibilità della domanda concordataria, i precedenti principi giurisprudenziali in tema di cristallizzazione degli effetti delle due procedure concordataria e fallimentare alla data di presentazione della domanda di concordato.
Ciò perché in conseguenza di detta riforma il provvedimento di inammissibilità del concordato e la sentenza di fallimento dovrebbero ritenersi distinti ed autonomi l’uno rispetto all’altra, considerato che la condizione in cui deve trovarsi attualmente l’imprenditore a norma dell’art. 160 L.F. per accedere al concordato è lo stato di crisi, che non necessariamente coincide con lo stato di insolvenza, e che nel vigore della precedente disciplina il Tribunale, una volta respinta l’omologazione, doveva dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore in stato di insolvenza, mentre dopo la riforma del 2005 è tenuto a valutare in concreto se sussista detta condizione di fallibilità.
Con il provvedimento di inammissibilità del concordato, pertanto, cesserebbero anche gli effetti di cui al combinato disposto degli artt. 169-55-56 LF per cui dovrebbe ritenersi ammissibile la compensazione tra i erediti ed i debiti sorti nel periodo della omologazione.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia errata motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento dell’insolvenza alla data di presentazione del concordato preventivo anziché di quello di crisi con riferimento all’art. 360 c.p.c. co. 1, n. 5 con violazione anche della norma dettata dall’art. 2909 c.c, con riferimento anche all’art, 360, comma 1, n. 3 c.p.c., in relazione al giudicato formatosi con la decisione n. 76/2007 dello stesso Tribunale.
Dalla citata sentenza risulterebbe che i debiti erano venuti ad esistenza nei sette mesi intercorsi tra la data di presentazione della domanda di concordato e quella della sentenza di fallimento, per cui non potrebbe ritenersi che l’insolvenza fosse già sussistente alla data di presentazione della domanda di concordato.
Pertanto l’assunto del giudice a quo, che la società fallita al momento della presentazione della domanda di concordato fosse già in stato di insolvenza, violerebbe il giudicato costituito dalla decisione 76/2007 del Tribunale di Venezia.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omessa e in subordine insufficiente e in estremo subordine contraddittoria motivazione in ordine a un fatto decisivo per il giudizio con riferimento all’art. 360 c.p.c. co. 1 n. 5.
Il Tribunale sarebbe incorso in difetto di motivazione per non aver dato rilievo alle disponibilità della società poi fallita risultanti dalla polizza Axa , prodotta all’udienza del 10.7.2008, che porterebbero ad escludere la sussistenza di una situazione di insolvenza alla data di presentazione della domanda di concordato e proverebbero che, in quel momento, la MP. era semplicemente in una situazione di crisi.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione falsa ed errata applicazione di norme di diritto degli artt. 2855 e 2788 c.c., 112 c.p.c., 93 e 98 L.F., 342 c.p.c. nella conferma del conteggio del Tribunale di cui al decreto 103.2008 ove gli interessi contrattuali sono stati riconosciuti per il periodo 7.6.2006 fino al 7.6.2007 e legali per il periodo successivo con riferimento all’art. 360 c.p.c. co. I n. 3.
Deduce in subordine la ricorrente che il Tribunale avrebbe errato nel disapplicare il disposto degli artt. 2855 c.c., 169-55-54 LF. , che porrebbe il termine finale “solare”, per il conteggio degli interessi contrattuali al 31.12.2007. e porterebbe, quindi, a riconoscere il credito di euro 1.153.617,99 con gli interessi contrattuali fino al 31.12.2007 e, poi, legali fino alla vendita.
Altro errore sarebbe consistito nel non avere tenuto conto anche della coesistenza del privilegio, dal quale era assistito il credito, sia per il pegno in essere di obbligazioni della Banca con scadenza 15.3.2008 per euro 145.000,00, che avevano maturato le cedole al 15.3.2007 per euro 2.251,13 e al 15.9.2007 per euro 2.710.78, sia per il pegno, munito di data certa il 19.5.2004, della polizza vita Assimoco a Favore di P. Mirco, scaduta il 30.6.2007, con il relativo accredito ricevuto dnlla Banca il 23.8.2007, pari ad euro 58.940,00, e che, pertanto, la disciplina di cui all’art. 2788 c.c., che non sarebbe collegabile al problema dell’anno contrattuale e/o solare di cui all’art. 2855, porterebbe a riconoscere la prelazione sulle somme di euro 64.901,91 fino al 31.12.2007 per quanto attiene alle somme sia maturate sulle obbligazioni fruttifere a pegno e sia per la conclusione della polizza Assimoco, somme che la banca aveva diritto di ritenere.
Conclusivamente la ricorrente formula, in relazione a detto motivo, il seguente quesito di diritto:” Dica la Suprema Corte se, come sostenuto dalla ricorrente, per anno in corso si debba intendere, nella fattispecie, e per entrambi i due distinti istituti (ipoteca pegno) sia ai fini dell’art. 2855 cc. sia ai fini dell’art. 2788 c.c. quello scadente il 31.12.2007 e se il Tribunale non abbia omesso di pronunciare sugli esalti termini delle domande proposte escludendo ai fini dell‘inquadramento del petitum le cause petendi azionate con la domanda di ammissione, avallando le infondate ed inammissibili eccezioni di controparte.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Secondo la ricorrente, nella ipotesi in cui alla declaratoria di inammissibilità della domanda di concordato preventivo sia seguito il fallimento dell’imprenditore, gli effetti della sentenza di fallimento, a seguito della entrata in vigore della nuova disciplina, non potrebbero più essere retrodatati, in virtù del principio della consecuzione di procedure concorsuali, alla data di presentazione della domanda di concordato preventivo.
Il collegio osserva che, nella vigenza della vecchia normativa, il principio di consecuzione delle procedure, con retrodatazione degli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento alla data della presentazione della domanda di ammissione alla procedura minore, è stato ritenuto applicabile tanto nella ipotesi in cui alla procedura di concordato preventivo ( avente l’identico presupposto dello stato di insolvenza dell’imprenditore) sia seguito il fallimento, quanto nella ipotesi in cui alla amministrazione controllata (avente quale presupposto la temporanea difficoltà dell’imprenditore di adempiere le proprie obbligazioni) sia poi seguita la dichiarazione di fallimento.
La Suprema Corte ha affermato tale principio, dando preminente rilievo alla ritenuta sostanziale affinità, sia strutturale che funzionale, ed alla conseguente complementarità delle procedure, attribuendo alla sentenza dichiarativa di fallimento la natura di atto terminale del procedimento, in alternativa al naturale sviluppo delle procedure minori, posto che in definitiva presupposto comune delle stesse è l’insolvenza, anche quando, come nell’amministrazione controllata, è la temporanea difficoltà a giustificare la procedura minore, che solo “ex post” si appalesi corrispondere ad un vero e proprio stato di decozione ( cfr. tra le molte : cass. n. 28445 del 2008; cass. n. 21326 del 2005 ). In sintesi la Corte di Cassazione ha ritenuto, nella vigenza della normativa precedente alla riforma del 2006, che è il principio di unitarietà delle procedure concorsuali (basato sul fatto che queste presentano un innegabile nucleo fondamentale comune: lo stato di insolvenza dello imprenditore ), che, nel caso di loro consecuzione, fa risalire all’apertura della prima gli effetti di quella finale.
Il collegio ritiene che il principio della consecuzione delle procedure debba trovare applicazione anche dopo l’entrata in vigore della nuova normativa fallimentare.
L’art. 160 della legge fallimentare, nella formulazione introdotta dal decreto legislativo n. 5 del 2006, stabilisce che l’ imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano ( di risanamento ) che può prevedere : a ) la ristrutturazione del debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma ( come la cessione dei beni, accollo, l’attribuzione ai creditori di azioni, quote, obbligazioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito); b) l’attribuzione delle attività del debitore ad un assuntore ( possono costituirsi assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, ma le cui azioni sono destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato ); c) la suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei; d) trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse.
L’ultimo comma dell’articolo summenzionato chiarisce poi che “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza.
L’articolo 162 della legge fallimentare ( non toccato dalla riforma della legge fallimentare introdotta con il D.Lgs. n. 5 del 2006) dispone che, se non ricorrono le condizioni previste dal primo comma dell’art. 160 o se ritiene che la proposta di concordato non risponde alle condizioni indicate nello stesso articolo, il Tribunale, sentito il pubblico ministero e occorrendo il debitore, con decreto non soggetto a reclamo dichiara inammissibile la proposta e dichiara d’ufficio il fallimento del debitore.
Tale disposizione è stata sostituita dal decreto correttivo n. 169 del 2007 (n art. 12), per cui l’art. 162 risulta così formulato: “Il Tribunale può concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti.
Il Tribunale, se all‘esito del procedimento verifica che non ricorrono i presupposti di cui agli articoli 160, commi primo e secondo, e 161, sentito il debitore in camera di consiglio, con decreto non soggetto a reclamo dichiara inammissibile la proposta di concordato. In tali casi il Tribunale, su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, accertati i presupposti di cui agli articoli I e 5 dichiara il fallimento del debitore.
Contro la sentenza che dichiara il fallimento è proposto reclamo a norma dell‘articolo 18. Con il reclamo possono farsi valere anche motivi attinenti alla ammissione della
proposta di concordato. ”
Appare opportuno chiarire che questa Suprema Corte ha affermato il principio che anche nella vigenza dell’art. 162 nella formulazione adottata dal D.Lgs. n. 5 del 2006. il fallimento non può essere dichiarato d’ufficio (cfr. cass. n. 18236 del 2009), dal riportato art. 160, ultimo comma, della legge fallimentare si evince che il requisito dello “stato di crisi’ per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo devesi ritenere comprensivo sia della situazione di insolvenza vera e propria che di uno stato di difficoltà economico- finanziaria non necessariamente destinato ad evolversi nella definitiva impossibilità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni.
Dalle norme su riportate si evince altresì che, se il debitore non viene ammesso alla procedura di concordato, il tribunale su richiesta di un creditore o del pubblico ministero, qualora ne ricorrano i presupposti, dichiara il fallimento del debitore.
Con la dichiarazione di fallimento il tribunale accerta ex post che lo stato di crisi, in base al quale l’imprenditore ha chiesto l’ammissione al concordato preventivo, è uno stato di crisi irreversibile, cioè un vero e proprio stato di insolvenza.
In tal caso anche se il fallimento non viene dichiarato automaticamente, come avveniva sotto l’impero della precedente normativa, ma richiede o l’iniziativa di un creditore o del pubblico ministero e l’accertamento in concreto sia dei requisiti di cui all’art. 1 della legge fallimentare (identici tanto per il fallimento che per il concordato preventivo ) sia dello stato di insolvenza dell’imprenditore, di cui all’art. 5 L.F., non si può escludere la unitarietà delle due procedure concorsuali, dovendosi attribuire alla sentenza dichiarativa di fallimento la natura di atto terminale del procedimento, in alternativa al naturale sviluppo della procedura minore.
Le due procedure debbono essere equiparate, avendo a base la medesima situazione
sostanziale, non potendosi dare decisivo rilievo agli aspetti procedurali della iniziativa
di un creditore o del pubblico ministero ed al fatto che lo stato di insolvenza deve essere effettivamente accertato, quando la dichiarazione di fallimento si palesa come l’unico sbocco necessario della crisi dell’impresa.
L’art. III, 2° comma, della legge fallimentare (introdotto dal D. Lgs. n. 5 del 2006) dispone che sono considerati debiti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge fallimentare.
La norma, come si evince dal dato testuale, considera prededucibili anche debiti sorti in occasione o in funzione della procedura di concordato preventivo e si riferisce chiaramente alla ipotesi in cui alla procedura di concordato preventivo sia seguito il fallimento dell’imprenditore.
Con tale disposizione, come giustamente affermato da condivisibile dottrina, si è preso atto legislativamente della continuità delle procedure consecutive, il che impone, essendo tali procedure volte ad affrontare la medesima crisi – ritenuta in un primo momento suscettibile di regolazione attraverso un accordo con i creditori e successivamente risultata tale da condurre alla liquidazione fallimentare di valutare in maniera unitaria determinati aspetti della disciplina fallimentare.
Ne deriva che, qualora, a seguito di una verifica a posteriori venga accertato, con la
dichiarazione di fallimento dell’imprenditore, che lo stato di crisi in base al quale ha chiesto la ammissione al concordato preventivo era in realtà uno stato di insolvenza, la efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento, intervenuta a seguito della declaratoria di inammissibilità della domanda di concordato preventivo, deve essere retrodatata alla data di presentazione di tale domanda, atteso che la ritenuta definitività anche della insolvenza che è alla base della procedura minore, come comprovata, ex post, dalla sopravvenienza del fallimento, e, quindi, l’identità del presupposto, porta ad escludere la possibilità di ammettere, in tal caso, l’autonomia delle due procedure.
Il secondo motivo è infondato.
Secondo la ricorrente dalla sentenza dichiarativa di fallimento n.76/2007 del Tribunale di Venezia risulterebbe che i debiti della società dichiarata fallita sarebbero venuti ad esistenza nei sette mesi intercorsi tra la data di presentazione della domanda di concordato e quella di dichiarazione del fallimento, per cui, nel caso di specie, non si potrebbe sostenere che lo stato di crisi del debitore fosse sia dall’inizio una situazione di insolvenza.
Tale interpretazione del giudicato non è condivisibile.
Il tribunale ha affermato che la situazione della fallita al momento della proposizione della domanda concordataria era già espressamente riconosciuta quale insolvenza ( come riconosciuto con la successiva Sentenza dichiarativa di fallimento ), interpretazione del giudicato che può essere condivisa, atteso che nella sentenza dichiarativa di fallimento si legge che “lo stato di insolvenza della società si desume dalla conclamata impossibilità di far fronte a tutti i debiti emersi in sede di procedura di concordato e dalla relazione del Commissario Giudiziale.
La ricorrente, al fine di sostenere il proprio assunto, asserisce che la espressione ” debiti emersi” debba essere intesa nel senso di debiti “sorti”.
Tale interpretazione, però, si pone in evidente contrasto con il significato letterale della parola, che, alla stregua del contesto nel quale è inserita, ha il chiaro inequivocabile significato di debiti, la cui esistenza è stata scoperta è emersa) a seguito degli accertamenti effettuati in sede di procedura concorsuale.
Il terzo motivo è inammissibile.
Il Tribunale sarebbe incorso nel vizio di motivazione per non aver tenuto conto di documentazione (indicata specificamente nel ricorso ) dalla quale emergerebbe che, nel momento in cui la ricorrente ha presentato la domanda di ammissione al concordato preventivo, non si trovava in stato di insolvenza.
Il provvedimento impugnato ha affermato il contrario in base al giudicato costituito dalla sentenza dichiarativa di fallimento.
La censura della ricorrente è, pertanto, inammissibile, in quanto intesa ad ottenere una nuova valutazione dei fatti che si porrebbe in contrasto con l’accertamento contenuto in detta sentenza, ormai definitiva, non essendo stata fatta oggetto di impugnazione.
Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del motivo dall’art. 366 bis c.p.c.. manca di specificità, atteso che si fa riferimento alle domande proposte dalla ricorrente senza specificare quale ne fosse l’effettivo petitum e si fa riferimento ad eccezioni di controparte senza che sia dato comprendere quale ne fosse il contenuto, chiedendo di accertare ” se il Tribunale non abbia omesso di pronunciare sulle domande proposte “.
Tale quesito, pertanto, non consente a questa Corte di decidere in base al solo contenuto del quesito stesso, prescindendo dal contenuto (peraltro non del tutto chiaro) della censura.
Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata a rimborsare al resistente le spese del giudizio di legittimità, che tenuto conto del valore della controversia, appare giusto liquidare in complessivi euro 4.500,00
(quattromilacinquecento), di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali a favore del resistente, liquidate in euro 4.500,00 ( quattromilacinquecento), di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Depositata in Cancelleria il 06.08.2010