Giurisdizione – Autodichia della Presidenza del Consiglio. Cassazione Civile, Sezioni Unite, Ordinanza 6829/2010
Le S.U. hanno riconosciuto fondamento costituzionale indiretto al potere della Presidenza della Repubblica di riservare, mediante regolamento, alla propria cognizione interna le controversie di impiego del personale, e, valorizzando – sulla base della giurisprudenza della Corte di Strasburgo – la precostituzione, l’imparzialità e l’indipendenza assicurata, dai regolamenti del 1996, ai collegi previsti per la risoluzione delle suddette controversie, hanno dichiarato la carenza assoluta di giurisdizione.
(Cassazione Sezioni Unite Civili, Presidente V. Carbone, Relatore L. Macioce)
L’autodichia designa un’area di attività delle Camere sottratte alla giurisdizione della magistratura (e, per questo motivo, rimesse – in caso di contestazione – allo scrutinio di organi interni alle Camere stesse). Dopo la sentenza n. 120 del 2014 della Corte costituzionale la concezione “geografica” di tale sottrazione – fino ad allora comunemente riferita a tutto ciò che le fonti interne (regolamento parlamentare maggiore e atti da esso previsti) ritenessero di deferire agli organi interni – è in via di abbandono, avendo la sentenza ricordato (sia pure entro i limiti della modalità prescelta dalla Cassazione per investirla) che “negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti e sui rapporti con i terzi non è più prevista”.
Nella vita amministrativa degli organi costituzionali si fa discendere – dalla suddetta concezione geografica della guarentigia – il principio di sottrazione alla legge “esterna” delle Camere stesse (v. posizione espressa dal Governo italiano nella seduta della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2 dicembre 2008 nella causa Savino ed altri contro Italia). In altri termini l’autodichia rifletterebbe una forma di autocrinia, della quale sarebbe l’espressione processuale: laddove la legge non sia espressamente richiamata da decisioni degli organi interni, competenti a disciplinare un qualsiasi aspetto della vita delle Camere, ad essa sarebbe inibito di disciplinare automaticamente aspetti importanti come il rapporto di lavoro dei dipendenti, la regolamentazione delle forniture e dei lavori degli appaltatori, ecc.; la clausola che conclude la promulgazione delle leggi dello Stato (“A chiunque è fatto obbligo di osservare e fare osservare…”) non si applicherebbe alle amministrazioni delle Camere, se non quando separatamente e gerarchicamente a ciò richieste dall’organo politico di gestione di questo tipo di rapporti (di solito il Presidente o l’Ufficio di Presidenza). La legge stessa riconoscerebbe questo ambito di autonomia normativa interna quando – nel rivolgere alcune sue previsioni anche agli organi costituzionali – invece di assumere una veste prescrittiva, utilizza la formula “nell’ambito della loro autonomia, adeguano i rispettivi ordinamenti interni ai principi della presente legge” (o formule similari: per la nascita di questa dizione, in riferimento agli organi costituzionali, v. Testa-Gerardi, Parlamento zona franca, Rubbettino, 2013).
Un’ulteriore inferenza sarebbe quella secondo cui la disciplina retributiva dei dipendenti sfuggirebbe – laddove non espressamente richiamata dalla regolamentazione interna, soggetta peraltro ad apposite procedure di negoziazione sindacale – alla normativa di diritto comune dei “tetti retributivi” imposti, a partire dal secondo governo Prodi (2006-2008) e dal governo Monti (2012), fino al decreto n. 66/2014 – per la generalità del pubblico impiego e per i contratti individuali con società partecipate pubbliche (Marro, Corsera 28 giugno 2014; Rizzo, Corsera 26 luglio 2014; Economist, 8 agosto 2014).
Sull’affermazione di un diverso modo di concepire l’autodichia degli organi costituzionali, secondo una nozione funzionalista, vedi il seguente atto parlamentare.
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Legislatura 17ª – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 302 del
07/08/2014
SENATO DELLA REPUBBLICA
—— XVII LEGISLATURA ——
302a SEDUTA PUBBLICA
RESOCONTO STENOGRAFICO
GIOVEDÌ 7 AGOSTO 2014
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Presidenza del presidente GRASSO,
indi della vice presidente FEDELI,
della vice presidente LANZILLOTTA
e del vice presidente GASPARRI
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Testo integrale della dichiarazione di voto del senatore Buemi in sede di
esame dell’emendamento 39.21 ai disegni di legge costituzionale nn. 1429, 7,
12, 35, 67, 68, 125, 127, 143, 196, 238, 253, 261, 279, 305, 332, 339, 414,
436, 543, 574, 702, 732, 736, 737, 877, 878, 879, 907, 1038, 1057, 1193,
1195, 1264, 1265, 1273, 1274, 1280, 1281, 1355, 1368, 1392, 1395, 1397, 1406,
1408, 1414, 1415, 1416, 1420, 1426, 1427 e 1454
Onorevoli colleghi, anzitutto una correzione sul testo stampato (a pagina 728
del fascicolo); l’ultima parola del testo dell’emendamento 39,21 non è
“comma”, ma “comma 3”.
L’argomento dell’autodichia è costellato, nella sua pluriennale riemersione,
di una costante, nella reazione alle proposte di abrogazione: NON È QUESTA
LA SEDE.
Ci è stato detto quando abbiamo proposto il disegno di legge ordinaria:
nonostante il fatto che la dottrina abbia confermato, soprattutto dopo la
sentenza Amato, che la materia delle amministrazioni parlamentari è
liberamente disciplinabile per legge, ci è stato detto che non era quella la
sede. Il disegno di legge Maritati e quello Bernardini giacquero per anni
nelle Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato, e lì ancora
giace quello socialista in questa legislatura.
Ci è stato poi detto che neppure la controversia Lorenzoni – arrivata
addirittura davanti alla Corte costituzionale – era la sede giusta: chiedemmo
al Presidente del Senato di non costituirsi a difesa dell’odioso privilegio,
ma ci fu risposto che non era quella la sede. Fu chiesto al Presidente del
Consiglio di lasciare che la Corte decidesse senza alcun intervento
dell’avvocatura dello Stato, ma neppure quella era la sede.
Quando il Governo fissò un tetto alle retribuzioni pubbliche, si pose il
problema dei dipendenti degli Organi costituzionali: la soluzione – nel senso
dell’estensione graduale del tetto, a tutti costoro – fu proposta da me e dal
collega Di Gioia, in sede di conversione del decreto legge n. 66, ma anche
qui ci si disse che non era la sede, col risultato, per inciso, del
degradante spettacolo di decisioni assunte a livello interno sotto i fischi e
le contestazioni dei dipendenti; sono convinto che – invece – costoro
avrebbero rispettosamente adempiuto ad una norma di legge, pubblicata in
Gazzetta Ufficiale.
Come raccontava Truman, esiste un posto in cui c’è scritto: “Qui finisce lo
scaricabarile” Quel posto a Washington è l’ufficio del Presidente degli
Stati Uniti. Nel nostro ordinamento costituzionale quel posto è il
Parlamento in sede di revisione costituzionale. In questa sede si può tutto:
far sparire un livello di legittimazione democratica, sopprimere una sede di
bilanciamento legislativo, alterare il sistema delle garanzie repubblicane.
Allora non si capisce perché non si possa fare un’operazione più semplice e
più sensata: affermare l’automaticità dell’ingresso della legge nella vita
amministrativa degli organi costituzionali. L’alibi che essi rispondono solo
a giudici interni deve essere rimosso. Su faccende esterne alle loro
funzioni, deve potersi instaurare un normale contenzioso dinanzi ai giudici
esterni: rapporti di lavoro ed appalti devono poter ricadere nella grande
regola dello Stato di diritto, come ha scritto Giuliano Amato nella sentenza
n. 120.
Abolire l’autodichia si può, in questa sede, perché è finalmente la sede
giusta: chiunque, che non sia in malafede, deve riconoscere che questo è
l’albero giusto per Bertoldo.
Abolire l’autodichia si deve, perché è fonte di perenne delegittimazione
del Parlamento, alimentando leggende che danneggiano le professionalità che
vi lavorano: non spetta a loro proporlo; spetta a noi disporlo, perché la
politica assuma finalmente il suo ruolo decisionale e, riformando le sue
istituzioni, le renda resistenti alla becera polemica populista. Qui finisce
lo scaricabarile.