Le offese pronunziate nei reality non costituiscono reato – CASSAZIONE PENALE, Sezione V, Sentenza n. 37105 del 23/09/2009
Nei reality tv le offese non sono un reato. Lo ha stabilito la Cassazione rilevando che simili programmi hanno la “caratteristica di sollecitare il contrasto verbale tra i partecipanti e i concorrenti ne sono perfettamente consapevoli”. La sentenza della Suprema Corte ha respinto così la domanda di risarcimento avanzata da Franco Mancini, concorrente di “Survivor” definito “pedofilo” da un altro partecipante della trasmissione.
Per valutare “la portata offensiva” dell’espressione usata – sottolinea la Cassazione – “occorre avere riguardo al contesto nel quale essa è inserita”. Dal momento che ”il dialogo si era svolto nel corso di un programma televisivo la cui caratteristica era quella di sollecitare il contrasto verbale tra i partecipanti”.
Inoltre i Supremi Giudici hanno aggiunto che anche all’epoca del primo reality “non poteva sfuggire ai soggetti direttamente coinvolti” che stavano partecipando a una “trasmissione volutamente indirizzata alla rissa verbale”. Quanto alla richiesta di tagliare la scena incriminata, la Cassazione replica che è una richiesta “irrilevante” visto che manca la portata offensiva dell’epiteto. Infine a Mancini, che sostiene di subire pesanti sfottò per via di quell’offesa, la Cassazione ribatte dicendo che si tratta “di una conseguenza della notorietà volontariamente acquisita con la partecipazione a quella trasmissione, nonché della naturale tendenza del pubblico all’imitazione di quanto apparso in televisione
CASSAZIONE PENALE, Sezione V, Sentenza n. 37105 del 23/09/2009
Con sentenza in data 23 giugno 2008 la Corte d’Appello di Roma, confermando la decisione assunta dal Tribunale di Rieti in composizione monocratica e impugnata dalla parte civile, ha escluso anche agli effetti civili la responsabilità di (…) e (…) in ordine al reato di diffamazione, col mezzo televisivo, in danno di (…).
In fatto era accaduto che, durante un programma televisivo trasmesso dalla R.T.I. sotto il controllo del (…) intitolato al (…) il concorrente (…) riferendosi all’avversario nel gioco, cioè al (…) lo definisse “pedofilo” a motivo delle attenzioni a lui rivolte ad aun’altra concorrente molto più giovane di lui.
Ha ritenuto il giudice di merito che l’espressione adottata, nel contesto di una trasmissione volutamente indirizzata alal rissa verbale fra i partecipanti, costituisse una impropria e scherzosa iperbole, priva dell’attitudine a ledere effettivamente la reputazione altrui. Anche le conseguenze derivatene al (…) dopo il suo ritorno a casa, costituite ba battute, scherni e molestie telefoniche, sono state viste dalla Corte d’Appello come conseguenza, più che della condotta degli imputati, della notorietà volontariamente acquisita dal querelante con la partecipazione a una trasmissione televisiva di quel tipo.
Ha proposto ricorso per cassazione il (…) nella qua qualità di parte civile, deducendo censire riconducibili a un solo motivo. Con esso il ricorrente si duole: che si sia omesso di tener conto della carica intrinsecamente offensiva dell’epiteto “pedofilo”, quand’anche pronunciato scherzosamente; che si sia erratamente giudicato usuale quel comportamento, in programmi televisivi come (…) senza considerare che quello era stato il reality show trasmesso in Italia; che trattandosi di programma registrato, sarebbe stato possibile il taglio della sequenza incriminata, come era accaduto per altre espressioni offensive pronunciate durante la trasmissione; che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, le conseguenze riversatesi sulla reputazione del ricorrente a seguito della trasmissione erano dipese dall’epiteto pubblicamente rivoltogli, che aveva fatto sentire altre persone legittimate a offendere, o quantomeno a ridicolizzare, il deducente.
Il ricorso è privo di fondamento e va disatteso.
Alla stregua di molteplici enunciazioni giurisprudenziali di questa Corte Suprema, nel valutare la portata offensiva di un’espressione verbale occorre avere riguardo al contesto nel quale essa è inserita (vedansi ex multis Cass. 14 febbraio 2008 n. 11632; Cass. 15 novembre 2007 n. 10420; Cass. 5 marzo 2004 n. 17664).
A tale principio si è correttamente attenuto il giudice di merito, il quale infatti si è interrogato sulla valenza lesiva della frase pronunciata dal (…) e indirizzata al (…) pervenendo a un giudizio negativo in considerazione del fatto che dialogo si era svolto nel corso di un programma televisivo la cui caratteristica era quella di sollecitare il contrasto verbale tra i partecipanti, secondo uno schema oggi abusato, ma anche a quell’epoca non poteva sfuggire ai soggetti direttamente coinvolti. Ha osservato altresì la Corte territoriale che l’uso della parola “pedofilo” era stato scherzoso, come evidenziato anche dal fatto che il (…) aveva inteso riferirsi alle “attenzioni” rivolte dal (…) una donna molto più giovane di lui, ma pur sempre adulta.
La conclusione, così raggiunta, oltre che sorretta da motivazione logicamente ineccepibile, è pienamente conforme ai principi giuridici che regolano la materia, valorizzando la necessità di “contestualizzare” l’espressione usata, e cioè rapportarla al contesto spazio-temporale nel quale è stata pronunciata.
Il fatto che si sia trattato di un programma registrato e trasmesso in un secondo momento non modifica minimamente i termini della questione: è infatti irrilevante il mancato esercizio della facoltà di “tagliare” la sequenza di cui si discute, volta che se ne escluda la portata offensiva alla luce del principio suesposto.
Del pari non influisce sul giudizio di penale irrilevanza del fatto la doglianza mossa dal (…) in riferimento alle conseguenze riversatesi su di lui dopo l’episodio teletrasmesso, e tradottesi – secondo l’assunto del ricorrente – in pesanti sfottò da lui subiti. Si è infatti trattato, come esattamente osservato dal giudice di merito, di una conseguenza della notorietà volontariamente acquisita dal (..) con la partecipazione a quella trasmissione televisiva, nonché – è il caso di aggiungere – dalla naturale tendenza del pubblico all’imitazione di quanto apparso in televisione.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 12 maggio 2009.
Il presidente
Il consigliere
Depositata in cancelleria il 23 settembre 2009