Corte Costituzionale

La legge ‘Pecorellà viola il principio costituzionale della “parità delle armi” tra difesa e accusa – CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza n. 26 del 06/02/2007

La legge 20
febbraio 2006, n. 46  (c.d. Legge ‘Pecorellà) che ha vietato il potere di
appello al pubblico ministero nel caso in cui l’imputato sia stato prosciolto,
viola il principio della "parità delle e armi" nel processo penale, garantito
dall’art.111 della Costituzione, ed "eccede il limite di tollerabilità
costituzionale in quanto non sorretta da una ‘ratio’ adeguata in rapporto al
carattere radicale, generale e unilaterale della menomazione del potere del Pm.

 


CORTE COSTITUZIONALE,
Sentenza n. 26 del 06/02/2007

(Presidente: F. Bile;
Relatore: G.M. Flick)

LA CORTE
COSTITUZIONALE

composta dai
signori:

– Franco BILE
Presidente

– Giovanni
Maria FLICK Giudice

– Francesco
AMIRANTE "

– Ugo DE
SIERVO "

– Romano
VACCARELLA "

– Paolo
MADDALENA "

– Alfio
FINOCCHIARO "

– Alfonso
QUARANTA "

– Franco
GALLO "

– Luigi
MAZZELLA "

– Gaetano
SILVESTRI "

– Sabino
CASSESE "

– Maria Rita
SAULLE "

– Giuseppe
TESAURO "

– Paolo Maria
NAPOLITANO "

ha
pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi
di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge 20 febbraio 2006,
n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità
delle sentenze di proscioglimento), promossi con ordinanze del 16 marzo 2006
dalla Corte d’appello di Roma nel procedimento penale a carico di E. F. ed altri
e del 16 marzo 2006 dalla Corte d’appello di Milano nel procedimento penale a
carico di A. M. ed altri, iscritte ai nn. 130 e 155 del registro ordinanze 2006
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 19 e 22 prima serie speciale, dell’anno 2006.


Udito

nella camera di consiglio del 24 gennaio 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria
Flick.


Ritenuto in
fatto

1. ” Con
l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Roma ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46
(Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle
sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico
ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, se non nel
caso previsto dall’art. 603, comma 2, del codice di procedura penale ” ossia
quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado ”
e sempre che tali prove risultino decisive.

La Corte
rimettente ” investita dell’appello proposto dal Procuratore della Repubblica
avverso la sentenza del Tribunale di Roma, che aveva assolto tre persone
imputate del reato di ricettazione ” rileva come, nelle more del gravame, sia
entrata in vigore la legge n. 46 del 2006, il cui art. 1, sostituendo l’art. 593
cod. proc. pen., ha sottratto al pubblico ministero il potere di appellare
contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per l’ipotesi delineata
dall’art. 603, comma 2, del codice di rito.

Ad avviso del
giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe
diversi precetti costituzionali.

Essa
risulterebbe lesiva, anzitutto, del principio di eguaglianza, sancito dall’art.
3 Cost.: consentire, infatti, all’imputato di proporre appello nei confronti
delle sentenze di condanna senza concedere al pubblico ministero lo speculare
potere di appellare contro "le sentenze di assoluzione", se non in un caso
estremamente circoscritto, significherebbe porre l’imputato in "una posizione di
evidente favore nei confronti degli altri componenti la collettività"; questi
ultimi vedrebbero fortemente limitato, in tal modo, il diritto-dovere del
pubblico ministero di esercitare l’azione penale, che tutela i loro interessi.
La possibilità, per l’organo dell’accusa, di proporre appello nei casi previsti
dall’art. 603, comma 2, cod. proc. pen. risulterebbe, in effetti, "poco più che
teorica", perchè legata alla sopravvenienza di prove decisive nel ristretto
lasso temporale tra la pronuncia della sentenza di primo grado e la scadenza del
termine per appellare.

La norma
censurata si porrebbe, altresi’, in contrasto con l’art. 24 Cost., non
consentendo alla "collettività", i cui interessi sono rappresentati e difesi
dal pubblico ministero, "di tutelare adeguatamente i suoi diritti": e cio’ anche
quando l’assoluzione risulti determinata da un errore nella ricostruzione del
fatto o nell’interpretazione di norme giuridiche.

Risulterebbe
violato, ancora, l’art. 111 Cost., nella parte in cui impone che ogni processo
si svolga "nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad
un giudice terzo e imparziale", posto che la disposizione denunciata non
permetterebbe all’accusa di far valere le sue ragioni con modalità e poteri
simmetrici a quelli di cui dispone la difesa.

Da ultimo,
detta disposizione lederebbe l’art. 112 Cost. Ad avviso del rimettente, infatti,
la previsione di un secondo grado di giudizio di merito ” fruibile tanto dal
pubblico ministero che dall’imputato (cosi’ come dall’attore e dal convenuto nel
giudizio civile) ” sarebbe "consustanziale" al sistema processuale vigente: con
la conseguenza che la sottrazione all’organo dell’accusa del potere di proporre
appello avverso le sentenze assolutorie eluderebbe i vincoli posti dal principio
dell’obbligatorietà dell’azione penale, "considerata nella sua interezza".

2. ” Con
l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Milano ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., questione di legittimità
costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006, nella parte in
cui, rispettivamente, escludono che il pubblico ministero possa appellare contro
le sentenze di proscioglimento (art. 1); e prevedono che l’appello proposto dal
pubblico ministero, avverso una di dette sentenze, anteriormente all’entrata in
vigore della medesima legge, venga dichiarato inammissibile, con facoltà per
l’appellante di proporre, in sua vece, ricorso per cassazione (art. 10).

Il giudice
a quo premette di essere chiamato a celebrare, a
seguito di impugnazione del pubblico ministero, il giudizio di appello nei
confronti di numerosi imputati, assolti in primo grado dal delitto di truffa
aggravata perchè il fatto non sussiste. Medio tempore,
era tuttavia sopravvenuta la legge n. 46 del 2006, la quale, all’art. 1,
sostituendo l’art. 593 cod. proc. pen., aveva precluso l’appello avverso le
sentenze di proscioglimento, fuori del caso previsto dall’art. 603, comma 2,
cod. proc. pen.; e, all’art. 10, aveva stabilito, con riguardo ai giudizi in
corso, che l’appello anteriormente proposto dal pubblico ministero vada
dichiarato inammissibile, salva la facoltà dell’organo dell’accusa di proporre
ricorso per cassazione contro la sentenza appellata.

Recependo,
in parte qua, l’eccezione formulata dal Procuratore
generale, la Corte rimettente dubita, tuttavia, della compatibilità di tali
previsioni normative con gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.

La questione
sarebbe rilevante nel giudizio a quo, in quanto il
suo accoglimento consentirebbe l’esame nel merito del gravame, altrimenti
destinato alla declaratoria di inammissibilità, non avendo il pubblico
ministero proposto nuove prove ai sensi dell’art. 603, comma 2, cod. proc. pen.

Quanto, poi,
alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ritiene che le
disposizioni censurate violino, anzitutto, il principio di parità delle parti
nel processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost. Inibendo tanto al
pubblico ministero che all’imputato l’appello avverso le sentenze di
proscioglimento, tali disposizioni attuerebbero, infatti, una parificazione
"solo formale": giacchè, nella sostanza, esse verrebbero a limitare il potere
di impugnazione di quella sola, fra le due parti, che ha interesse a dolersi
delle suddette sentenze, ossia il pubblico ministero.

D’altro
canto, alla luce dell’"unica interpretazione possibile" dell’art. 576 cod. proc.
pen., come modificato dalla stessa legge n. 46 del 2006, le sentenze di
proscioglimento potrebbero formare invece oggetto di appello ad opera della
parte civile: donde un ulteriore profilo di disuguaglianza, venendo il pubblico
ministero a trovarsi in posizione deteriore anche rispetto a tale parte privata.


l’evidenziata situazione di "assoluta disparità di trattamento" fra le parti
processuali risulterebbe elisa dalla facoltà di proporre appello avverso le
sentenze di proscioglimento nell’ipotesi prevista dall’art. 603, comma 2, cod.
proc. pen., la quale si connoterebbe come "del tutto residuale".

Le norme
censurate si porrebbero, per altro verso, in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto
il profilo del difetto di ragionevolezza.

Alla luce
delle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte, infatti ” se
pure il potere impugnazione del pubblico ministero non costituisce
estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale
” una asimmetria tra accusa e difesa, su tale versante, sarebbe compatibile con
il principio di parità delle parti solo ove

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