La risoluzione del Csm sull’indulto
Approvata
all’unanimità il 9 novembre la risoluzione del Consiglio superiore della
magistratura lancia un allarme sugli effetti dell’indulto: per il documento
l’80% dei processi pendenti rischia di finire con un nulla di fatto. La
situazione, insomma, è "drammatica", considerato che solo un numero di
procedimenti esiguo – dal 3 al 9% del totale – riguarda reati non coperti
dall’indulto. Pur non chiedendo ufficialmente un’amnistia risolutoria di questi
problemi, il Consiglio segnala tra l’altro che "tutti i presidenti di corte e i
procuratori generali ” anche quelli che hanno voluto sottolineare la propria
contrarietà all’indulto – hanno rappresentato l’esistenza, nei rispettivi
distretti, di una situazione egualmente drammatica, definendola inevitabile in
assenza di un provvedimento di amnistia almeno per i reati "minori" commessi
sino a tutto il 2 maggio 2006"
Consiglio
Superiore della Magistratura RISOLUZIONE ADOTTATA DALL’ASSEMBLEA PLENARIA NELLA
SEDUTA DEL 9 NOVEMBRE 2006
1. Con nota
in data 12 settembre 2006, il Ministro della Giustizia, premesso che "a seguito
della legge n. 241 del 31 luglio 2006 recante "Concessione di indulto" è stata,
da più parti, prospettata la possibilità di differenziare, rispetto agli
altri, la tempistica dei processi penali destinati ad esaurirsi senza la
concreta inflazione di una pena", ha sollecitato il Consiglio superiore della
magistratura ad assumere "le eventuali iniziative di competenza" per concorrere
a "realizzare, nell’esercizio della giurisdizione, metodologie funzionali ed
efficaci per l’effettività della resa".
2. Per dare
risposta adeguata a tale nota il Consiglio ha ritenuto di procedere a una
verifica della situazione degli uffici in conseguenza dell’indulto –
intervenuto, per usare le parole del Ministro, in "un quadro operativo gravato
da notevoli ritardi nell’esercizio della giurisdizione" – attraverso l’audizione
dei presidenti delle Corti di appello e dei procuratori generali dei più grandi
distretti del Paese (Torino, Milano, Roma, Napoli e Palermo), nei quali si
concentra la maggioranza degli affari.
L’esito delle
audizioni puo’ cosi’ sintetizzarsi:
a1) in tutti
i distretti il numero dei procedimenti per reati esclusi dall’indulto (sia nella
fase delle indagini preliminari che in quella dibattimentale) è esiguo,
oscillando, a seconda dei distretti, fra il 3 e il 9% del totale;
a2) nei
periodi esaminati a campione (relativi al 2005), l’entità delle condanne
inflitte è stata, in misura oscillante tra l’80% e il 92% del totale, pari o
inferiore a tre anni di pena detentiva o a 10.000 euro di pena pecuniaria;
a3) alla luce
di tali dati, è ragionevole prevedere che una aliquota prossima all’80% dei
procedimenti attualmente pendenti per reati commessi fino a tutto il 2 maggio
2006 si concluderà, in caso di condanna, con l’applicazione di una pena
interamente condonata;
a4) tale
aliquota corrisponde, in termini assoluti, a numeri ingenti. Per quanto riguarda
il circondario del Tribunale di Torino (nel quale è stata fatta l’elaborazione
più completa dei dati) il numero dei procedimenti in questione è – sommando
quelli pendenti presso la procura della Repubblica (circa 34.000) e quelli
stimati in carico al Tribunale – di circa 40.000;
a5) è stato
previsto che tale mole di procedimenti non possa essere interamente definita
prima di cinque anni;
a6) tutti i
presidenti di corte e i procuratori generali ” anche quelli che hanno voluto
sottolineare la propria contrarietà all’indulto – hanno rappresentato
l’esistenza, nei rispettivi distretti, di una situazione egualmente drammatica,
definendola inevitabile in assenza di un provvedimento di amnistia almeno per i
reati "minori" commessi sino a tutto il 2 maggio 2006;
a7) per far
fronte a detta situazione alcuni presidenti di Corte e procuratori generali
hanno segnalato l’avvenuta adozione (o lo studio in atto) di provvedimenti
finalizzati a privilegiare la trattazione dei procedimenti per reati non
compresi nell’indulto, mentre altri hanno escluso in radice tale possibilità,
ritenendola inutile o lesiva delle prerogative dei magistrati preposti ai
singoli affari.
3. E’ in
questo contesto che si colloca la nota del Ministro della Giustizia citata in
premessa, che richiama, tra l’altro, l’art. 227 del decreto legislativo n. 51
del 1998 (relativo alla istituzione del giudice unico di primo grado) e
l’avvenuta adozione da parte dei dirigenti di alcuni uffici di "criteri di
priorità" nella gestione degli affari, anche "a regime".
La questione
relativa al potere dei capi degli uffici di fissare, nella trattazione degli
affari, "criteri di priorità" (come sono stati definiti, con termine
onnicomprensivo, interventi in realtà eterogenei contenenti, prevalentemente,
misure di carattere organizzativo) è risalente ed è stata oggetto, oltre che
di ampio dibattito politico e dottrinale, di ripetuti interventi del Consiglio
superiore soprattutto in sede di approvazione delle cosiddette "tabelle". Il
primo provvedimento contenente in modo esplicito la determinazione di "criteri"
per la trattazione degli affari, adottato congiuntamente dal presidente della
Corte d’appello e dal procuratore generale di Torino, risale all’8 marzo 1989 ed
è stato seguito ” a dimostrazione dell’impegno di molti dirigenti per rendere
razionale e proficuo il lavoro giudiziario ” da numerosi analoghe determinazioni
relative sia agli ufficigiudicanti che a quelli inquirenti. Del tutto pacifico
è stato peraltro sin ab initio che, in sede di definizione di tali criteri "non
è consentita un’opera che si traduca in assoluto nella esclusione dell’azione
penale per fatti che la legge considera reati". Tale impostazione ha trovato
conferma, come meglio si dirà più avanti, in esplicite prese di posizioni del
Consiglio superiore e deve, ancora oggi, essere ribadita.
4. Anche
l’ulteriore problema sollevato nella nota in esame, riguardante l’eventuale
competenza del Consiglio superiore della magistratura ad assumere iniziative
finalizzate ” sulla base della ratio della disciplina di cui all’art. 227 del
decreto legislativo n. 51/1998 – a differenziare i tempi di trattazione dei
procedimenti destinati ad esaurirsi senza la concreta applicazione delle pena in
quanto estinta ai sensi della legge n. 241 del 2006, non ha carattere di
assoluta novità.
Sono note,
infatti, alcune risalenti iniziative consiliari tese a rendere più sollecita la
trattazione dei procedimenti per delitti di particolare allarme sociale (luglio
1977) e dei procedimenti nei confronti di magistrati (11 giugno 1981). Nel primo
caso si sollecito’ il potenziamento del settore penale (attraverso una
redistribuzione dei magistrati e una ridefinizione del rapporto tra il numero
dei giudici assegnati al settore civile e di quelli assegnati al settore penale)
e si segnalo’ l’opportunità di una programmazione dello svolgimento del lavoro
penale in modo tale da consentire la sollecita trattazione dei processi più
gravi, affermando, peraltro, espressamente che "non puo’ essere impartita una
direttiva generale che potrebbe apparire quasi una giustificazione ufficiale e
un incentivo all’estinzione dei "reati minori" per prescrizione". Con la seconda
risoluzione il Consiglio sottolineo’ che "anche i procedimenti penali nei
confronti di magistrati richiedono la trattazione più sollecita per l’evidente
inerenza al bene dell’Amministrazione della giustizia", ma non manco’ di
ribadire che "spetta, naturalmente, alla responsabilità dei magistrati titolari
dei processi penali di disciplinare i tempi di trattazione nell’ambito delle
norme vigenti".
Dopo tali
iniziative, il Consiglio intervenne con specifiche indicazioni agli uffici, in
attuazione dell’art. 227 del decreto legislativo n. 51/1998 sul giudice unico di
primo grado. Il sistema delineato da tale articolo comporto’ l’adozione di
determinazioni di tipo organizzativo: l’introduzione di meccanismi finalizzati
ad assicurare una migliore transizione verso il nuovo assetto degli uffici di
primo grado si concretizzo’ nella previsione di moduli la cui concreta
individuazione venne affidata, dalla circolare 8 aprile 1999, a una "conferenza
degli uffici" costituita dai dirigenti degli uffici giudicanti e requirenti del
distretto. Alla "conferenza degli uffici" venne attribuito il compito di
"elaborare soluzioni organizzative e operative dirette ad assicurare la più
sollecita definizione dei processi pendenti" (punto 6, lettera c); con specifico
riferimento agli uffici del pubblico ministero, la circolare – ferma restando la
procedura incentrata sulla citata conferenza – prospetto’ molteplici soluzioni
organizzative volte alla gestione dell’arretrato esistente presso le procure
pretorili (punto 7, lettera h). Nel solco di questa impostazione, la circolare
per la formazione delle tabelle per il biennio 2000-2001 (delibera del 24
dicembre 2000), stabili’, al punto 58.1, che "la determinazione dei criteri di
priorità indicata in via transitoria dall’art. 227 ( ) non deve interferire con
i criteri predeterminati per l’assegnazione degli affari": venne cosi’
confermato il carattere transitorio della disciplina di cui all’art. 227 del
decreto legislativo n. 51/1998, finalizzata alla gestione della fase di
passaggio verso il nuovo assetto degli uffici di primo grado. Identiche
previsioni sono state riprodotte nelle circolari per la formazione delle tabelle
per i bienni 2002-2003 (punto 58.1), 2004-2005 (punto 57) e 2006-2007 (punto
57.1).
Anche la
disciplina dei criteri di priorità dettata dal Consiglio superiore in
esecuzione dell’art. 227 del decreto legislativo n. 51/1998 si colloca dunque ”
come i precedenti interventi consiliari ” sul piano dell’organizzazione
dell’attività giudiziaria e, in quanto tale, si distingue da quella che è
stata definita la "selezione finalistica" delle notitiae criminis o dei
procedimenti. In altri termini, l’ambito di intervento del Consiglio nel settore
della gestione degli affari giudiziari è sempre stato circoscritto alla sfera
dell’organizzazione dell’attività giudiziaria, con esclusione di iniziative
tese ad autorizzare ” di diritto o di fatto ” la mancata trattazione di alcuni
procedimenti. Cio’ consegue al ruolo che la Costituzione assegna al Consiglio
(preposto alla amministrazione della giurisdizione ma privo di ogni potere
diretto sul concreto esercizio della stessa) ma è ancor più evidente ove, come
nel caso di specie, l’iniziativa prospettata sia destinata a individuare i
processi per reati condonati e ad accantonarli (inevitabilmente in attesa della
maturazione della prescrizione). Infatti:
b1) i
procedimenti interessati non sono, in questo caso, individuabili sulla base di
un riferimento temporale analogo a quello previsto dall’art. 227 del decreto
legislativo n. 51/1998, non potendo all’evidenza essere considerato tale il
tempus commissi delicti ai fini dell’applicazione dell’indulto;
b2) se è
vero che esistono rilevanti tipologie di reati per i quali l’indulto risulta
prima facie applicabile, è parimenti vero che per numerose categorie di
illeciti penali l’estinzione integrale della pena non puo’ che essere riferita
al caso concreto oggetto dell’accertamento giurisdizionale, il che rende non
praticabile l’adozione di criteri sufficientemente obiettivi e trasparenti per
la gestione differenziata dei relativi procedimenti.
5. Alla
stregua di quanto precede, i dirigenti degli uffici (inquirenti e giudicanti)
possono e devono, nell’ambito delle loro competenze in tema di amministrazione
della giurisdizione, adottare iniziative e provvedimenti idonei a razionalizzare
la trattazione degli affari e l’impiego, a tal fine, delle (scarse) risorse
disponibili. Addivenire a scelte organizzative razionali, nel rispetto del
principio della obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) e di
soggezione di ogni magistrato esclusivamente ala legge (art. 101, secondo comma,
Cost.), risponde ai principi consacrati dall’art. 97, prima comma, della
Costituzione – riferibile anche alla amministrazione della giustizia ” che
richiama i valori del buon a