Se l’attività di consulenza è svolta in adempimento dei propri doveri dì amministratore non spetta alcun compenso aggiuntivo – CASSAZIONE CIVILE, Sezione III, Sentenza n. 10490 del 08/05/2006
Con il seguente orientamento la Cassazione
perviene alla soluzione che in un contratto di consulenza, è proprio il
difetto di causa a viziare irrimediabilmente di nullità laddove deve
intendersi per causa lo scambio di quella ben identificata attività
consulenziale, gi’à simmetricamente e specularmene svolta in adempimento dei
propri doveri di’ amministratore, con il compenso preteso.
La vicenda –
La questione ha origine in seguito alla
stipulazione tra una società ed un privati di contratto di consulenza (avente
ad oggetto la valutazione di progetti industriali e di acquisizione di
azienda), cui aveva fatto seguito una seconda convenzione negoziale, con la
quale gli veniva riconosciuto, per dette prestazioni, un compenso annuo.
Il mancato pagamento dell’importo anzidetto
aveva spinto il privato a ricorrere in giudizio dichiarando di non aver ricevuto
il saldo delle proprie competenze da parte della convenuta che, tra l’altro,
costituendosi, eccepiva che tutte le attività svolte erano da ritenersi tout
court assorbite nei compiti a lui spettanti in relazione alle cariche
ricoperte nei consigli di amministrazione delle società a lei collegate, e che
inoltre, la società essendo mero schermo societario fittiziamente creato per
eludere norme fiscali e contributive, non aveva mai svolto alcuna reale
attività.
Il tribunale di primo grado aveva rigettato
ritenendo nullo il duplice negozio di consulenza per difetto di causa.
La Corte D’Appello, decideva anch’essa di
rigettare la domanda; la parte attrice prosegue in Cassazione.
La questione di diritto sollevata e la
soluzione adottata dalla Corte –
Nell’ambito della sentenza in esame è possibile
configurare più questioni attinenti a diversi istituti giuridici in quanto
svariate sono i motivi con cui si ricorre in Cassazione.
Per quanto concerne la questione
relativa l’
errata applicazione dell’art. 102 c.p.c.,
concernente la mancata integrazione del contraddittorio nella pronuncia di
simulazione soggettiva, la prevalente (anche se non unanime) giurisprudenza di
questa Corte di legittimità, ritiene che la struttura litisconsortile del
procedimento di accertamento della fattispecie della simulazione (assoluta o
relativa) è a dirsi necessaria soltanto nelle ipotesi in cui detto accertamento
abbia a realizzarsi in via principale, e non anche (come nella specie)
incidenter tantum, nell’ambito di altro e diverso procedimento (nella
specie, di accertamento della nullità di un contratto per impossibilità
giuridica dell’oggetto ovvero, più correttamente, per difetto di
giustificazione causale concreta dell’atto): si’ sono, difatti, espresse le
sentenze n. 3727 del 2003, 10841 del 2000, 6214 del 1998 di questa Corte, ed a
questa giurisprudenza il collegio ritiene di aderire.
Per quel che
concerne, invece, la questione secondo la quale la nullità della convenzione
negoziale possa derivare dalla pretesa impossibilità dell’oggetto del contratto
occorre fare espresso richiamo alle fonti dottrinarie.
Si è soliti
distinguere, quanto all’oggetto della
prestazione dedotta in obbligazione, tra impossibilità fisica e giuridica,
definendo fisica la impossibilità derivante da prestazione impossibilis in
rerum natura (quale la traditio di una cosa distrutta), giuridica
quella che, pur non consistendo di per sè in un illecito (cio’ che distingue
la prestazione ad oggetto impossibile da quella ad oggetto illecito, come la
vendita di banconote contraffatte), è purtuttavia inattuabile in conseguenza
di un divieto normativo (quale quello di edificazione violando le distanze
legali).
Nella specifica situazione concreta
non ricorre nessuna delle cosi’ descritte fattispecie di impossibilità,
trattandosi di prestazione (attività di consulenza) possibile tanto nella sua
fisicità che sotto il profilo della conformità a norme di diritto, di talchè
l’assunto difensivo risulta, in parte qua, infondato.
Inoltre, istituto giuridico in luce
nella sentenza è quello della causa del negozio giuridico stipulato tra le
parti.
Intesa nel comune significato di
"funzione economico sociale" del contratto, il negozio oggetto della presente
controversia non puo’ legittimamente dirsi "privo di causa", corrispondendo
esso, addirittura, ad uno schema legale tipico, quello disegnato dall’art. 2222
c.c.
Ma, non è cosi’.
Tale definizione di causa, secondo la
Cassazione, è il frutto della riflessione dei giuristi d’oltralpe che, tra
il 1625 ed il 1699, individueranno nell’obbligazione di una parte verso l’altra
il fondamento della teoria causale (e di qui, l’origine storica della perdurante
difficoltà a superare la dicotomia contratto di scambio-liberalità donativa).
Diverse sono state le varie
definizioni di causa succedutesi nel tempo discorrendosi, di volta in volta,
di’:
-
scopo
della parte o motivo ultimo (la
cd. teoria soggettiva, ormai adottata dalla moderna dottrina francese, che
parla di causa); -
di
teoria della controprestazione o teoria oggettiva classica (che
sovrappone, del tutto incondivisibilmente, il concetto di causa del contratto
con quello di causa/fonte dell’obbligazione); -
di
funzione giuridica ovvero di funzione tipica (rispettivamente
intese in guisa di sintesi degli effetti giuridici essenziali del contratto,
ovvero di identificazione del tipo negoziale – che consente ad alcuni
autori di predicare la sostanziale validità del negozio simulato
sostenendone la presenza di’ una causa, i’ntesa come "tipo" negoziale
astratto, sia pur fittizio, quale una donazione, una compravendita, ecc.
-
di
funzione economico -sociale, infine, cara alla cd. teoria oggettiva,
formalmente accolta dal codice del 42, del tutto svincolata dagli scopi delle
parti all’esito di un processo di astrazione da essi (per tacere delle teorie
anticausalistiche, di derivazione tedesca, con identificazione della causa
nell’oggetto o nel contenuto del contratto, non indicando il codice tedesco la
causa tra gli elementi costitutivi del contratto).
Il codice dice che essa è la
funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall’ordinamento
ai fini di giustificare la tutela dell’autonomia privata (cosi’,
testualmente, la relazione del ministro guardasigilli).
Ma accanto ad essa si configura una
causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale
dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico
contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto,
seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del
negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi
contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno
inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo
unica) convenzione negoziale.
Da cio’ la Cassazione conclude che,
nel caso che ci occupa, sia proprio il difetto di causa a viziare
irrimediabilmente di nullità il contratto di consulenza, intesa per causa lo
scambio di quella ben identificata attività consulenziale, gi’à
simmetricamente e specularmene svolta in adempimento dei propri’ doveri di’
ammini’stratore, con il compenso preteso.
(Annaflora Sica, © Litis.it, 30
Giugno 2006)
Cassazione Civile, Sezione
III, Sentenza n. 10490 del 08/05/2006 (Presid