“Erika resta in carcere, non si è ravveduta”. Dalla Cassazione il “no” all’affidamento ad una struttura terapeutica
Secondo la prima
sezione penale della Suprema Corte, la ragazza ”è ben lungi dall’aver
acquisito un senso di colpa reale per i delitti terribili commessi”
Roma, 25 mag. (Adnkronos/Ign)
– Erika De Nardo deve rimane in carcere perchè non si è
”ravvedutà’ per i ”terribili delitti commessi”. Sono
queste le ragioni alla base del rifiuto della Corte di Cassazione di accordare
l’affidamento in una struttura terapeutica, al posto del
carcere, alla giovane 22enne condannata per i terribili omicidi della madre
Giusy Cassini e del fratellino Gianluca commessi insieme al fidanzano
Omar il 21 febbraio del 2001.
La prima sezione penale della Suprema Corte (presidente Mario Sossi, relatore
Piero Mocali) nel respingere il ricorso della difesa della ragazza condivide
completamente il giudizio espresso dal Tribunale di sorveglianza dei minori di
Milano del 27 maggio scorso in cui si osservava ”correttamente come la
condotta altalenante del soggetto (che accanto al corso di studi regolarmente
seguito, mostrava aperture di consapevolezza, circa i delitti terribili
commessi, solo sporadiche ed era ben lungi dall’aver acquisito un senso di colpa
reale, come sintomo definitivo della raggiunta emenda) non
consentisse di formulare un giudizio positivo” rispetto alla richiesta
dell’inserimento di Erika in una struttura terapeutica.
In altre parole, la Suprema Corte nella sentenza 18486, sposa in pieno la
teoria dei giudici del grado precedente che avevano rilevato la mancanza del
”requisito del sicuro ravvedimento inteso come conclusione del processo di
riadattamento sociale, giustificativo di una prognosi negativa circa la futura
recidività”.
Bocciate, dalla Suprema Corte, ai fini della concessione della liberazione
condizionale di Erika, anche le relazioni degli operatori
penitenziari che avevano espresso parere positivo circa il collocamento della
ragazza in una comunità terapeutica pur rilevando
”l’oscillazione continua del suo comportamento, migliorato ma ancora lontano
dalla adesione consapevole e non solo opportunistica alle regole impostè’. Una
diagnosi che, come già aveva osservato il Tribunale e ora la Cassazione
dimostra come ”la liberazione condizionale era vistà’ da Erika ”solo come
strumento per evitare il carcere per adulti e per poi,
attraverso il beneficio, avvicinarsi a quel traguardo di emenda tutt’ora ben
lungi”.
Invano la difesa di Erika ha rivendicato il fatto che la posizione del senso di
colpa per i terribili delitti avrebbe potuto essere completamente rielaborato
solo con l’inserimento in una struttura terapeutica alternativa al carcere. In
proposito, la Suprema Corte ha evidenziato come ”l’ordinanza impugnata ha ben
risposto sul punto, correttamente affermando che le caratteristiche
dell’istituto terapeutico non possono essere piegate alle contingenti esigenze
del soggetto condannato, allorchè, come nella specie, questo non appaia
meritevole del medesimo”. In conclusione la Cassazione ha ribadito la necessità
per Erika del carcere anche in base al fatto che dalla relazione
psicologica ”la De Nardo mostrava apertura di consapevolezza, ma la loro
intermittenza e la mancanza di un effettivo senso di colpa esigevano ancora un
trattamento lungo e tutt’altro che scontato negli esiti, per la presenza di un
marcato assetto di natura schizoide, che scinde
costantemente i fattori affettivi da quelli cognitivi, non permettendone
l’armonizzazionè’. Un percorso terapeutico, dunque, più che mai necessario
allo ”scopo – scrive ancora piazza Cavour – di ottenere la completa
rielaborazione del vissuto criminale e l’acquisizione del senso di colpa, che
l’ordinanza impugnata indica come tutt’ora carenti”