Penale

Non costituisce falso ideologico allontanarsi dal posto di lavoro senza timbrare il cartellino – CASSAZIONE PENALE, Sezioni Unite, Sentenza n. 15983 del 11/04/2006


DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA – FALSO
IDEOLOGICO EX ART. 479 C.P. – PUBBLICO DIPENDENTE – ALLONTANAMENTO DAL LUOGO DI
LAVORO – OMESSA TIMBRATURA DEL CARTELLINO SEGNATEMPO – INSUSSISTENZA DEL REATO

 

Le Sezioni unite non riconoscono natura di atto pubblico al
cartellino segnatempo, ed in generale ai fogli di presenza dei pubblici
dipendenti, e pertanto negano che integri il delitto di cui all’art. 479 c.p. la
mancata timbratura del cartellino, da parte del pubblico dipendente, in
occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro. Il cartellino segnatempo
ed i fogli di presenza, infatti, sono destinati ad attestare soltanto una
circostanza materiale che attiene al rapporto di lavoro con la pubblica
amministrazione (oggi soggetto a disciplina privatistica), e le annotazioni ivi
contenute non involgono affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di
volontà riferibili alla pubblica amministrazione. Le Sezioni unite precisano
pero’ che, ove le attestazioni del pubblico dipendente siano utilizzate o
recepite in atti della pubblica amministrazione, a loro volta attestativi,
dichiarativi o di volontà della stessa, si configura l’ipotesi criminosa del
falso per induzione, ai sensi dell’art. 48 c.p..

 

La vicenda

Il 19 ottobre 2004 la Corte di Appello di
Palermo confermando la sentenza del 7 marzo 2002 del Tribunale di Agrigento,
condannava G. S. e V. C., ritenendoli colpevoli dei reati di cui agli artt. 61,
n. 9, 81, cpv., 640, cpv. n. 1, c.p. e 61, n. 2, 81, cpv., 479, in relazione
all’art. 476, c.p..
Si contestava a tali imputati, nella loro qualità di pubblici dipendenti della
Soprindentenza ai beni culturali ed ambientali di Agrigento, di avere falsamente
attestato la loro presenza al lavoro nell’ufficio regionale presso il quale
prestavano servizio, allontanandosene, invece, senza formale permesso e
sottoscrivendo fogli di presenza e timbrando il proprio cartellino presso
l’apposito orologio marcatempo, facendo cosi’ risultare orari di entrata e di
uscita non rispondenti a quelli effettivi.
I giudici del merito ritenevano accertato che, in più occasioni, gli imputati
avevano timbrato il proprio cartellino presso l’apposito orologio marcatempo
all’inizio ed alla fine della giornata di lavoro, ma non avevano fatto
risultare, mediante analoga marcatura, i propri allontanamenti dal luogo di
lavoro, non dovuti a motivi di servizio; e che tanto integrava gli estremi dei
contestati reati di truffa aggravata e di falso

Avverso tale sentenza le imputate proponevano,
rispettivamente, ricorso.

Il ricorso assegnato alla Quinta Sezione penale
della Suprema Corte veniva rimesso alla competenza delle Sezioni Unite.

 

La questione
di diritto sollevata

Limitatamente alle imputazioni di falso –
argomento che più ci preme sottolineare della sentenza in questione e sul quale
è concentrato il presente commento – la questione sottoposta all’esame di
queste Sezioni Unite è “se integri il reato di falso ideologico in atto
pubblico la mancata timbratura, da parte del dipendente pubblico, del cartellino
segnatempo in occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro
“.

Il quesito ha comportato, per la Suprema Corte,
l’esame e la soluzione di altra, preliminare questione e, cioè, se “il
cartellino marcatempo (che meccanicamente annota gli orari di ingresso e di
uscita dal luogo di lavoro) ed i fogli di presenza (che assolvono ad analoga
funzione) dei pubblici dipendenti abbiano o meno natura di atto pubblico
“.

Riguardo al primo punto di domanda si rileva,
nel tempo, un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Alcune sentenze, infatti, hanno ritenuto che la
mancata timbratura, da parte del dipendente, del cartellino segnatempo in
occasione di brevi allontanamenti dal luogo di lavoro non costituisce il reato
di falso ideologico per omissione (Cass. 7719 del 7.8.96 rv. 205551), altre
hanno concluso in senso opposto (Cass. 27509 del 18.6.04 rv. 228737);

I Giudici remettenti hanno mostrato di aderire
al primo di tali indicati orientamenti giurisprudenziali, sull’assunto che “deve
ritenersi che la mancata attestazione dell’allontanamento, dopo aver timbrato
in ingresso il cartellino segnatempo, non equivalga all’attestazione di
ininterrotta presenza in ufficio.
.” – sicchè “la mancata timbratura del
cartellino in occasione di un temporaneo allontanamento del funzionario non dà
luogo alla reticente formulazione di un atto pubblico unitario, tale da tradursi
in una falsa rappresentazione della realtà; ma è semplicemente l’omissione del
compimento dell’atto, l’omissione di una delle molteplici autonome attestazioni
che debbono essere documentate nel cartellino segnatempo
” (Cass. 7719 del
7.8.96 rv. 205551).

In ordine al secondo quesito, invece, la
prevalente giurisprudenza si è positivamente orientata, sulla considerazione
che tali atti (cartellino segnatempo, fogli di presenza) svolgerebbero la loro
funzione non solo in riferimento al rapporto di lavoro tra impiegati pubblici e
pubblica amministrazione, ma anche in relazione alla organizzazione stessa di
quest’ultima, con riflessi sulla sua funzionalità, essendo, percio’, essi “destinati
a produrre effetti per la stessa pubblica amministrazione
“, anche in ordine
al “controllo dell’attività e regolarità dell’ufficio“; tali
attestazioni, quindi, sarebbero “preordinate ad attestare la certezza dello
svolgimento della pubblica funzione da parte di coloro che ne sono preposti
“,
non rilevando al riguardo la natura privatistica del rapporto di lavoro tra
pubblico dipendente e pubblica amministrazione (da ultimo Sez. V, n. 5676/2005,
P.G. in proc. Santamaria ed altro; Sez. V. n. 16503/2004, Matarelli; Sez. V. n.
43844/2004, P.G. in proc. Amendola; Sez. V, n. 42245/2004, Orlando; Sez.


V, n. 40848/2004, P.M. in proc.

PasserellaSez. V, n. 27509/2004, Cei; Sez. V, n.
21193/2003/2003, P.M. in proc. Giambo’; ecc.).
Tale indirizzo giurisprudenziale fa leva, in sostanza, sulla considerazione che
siffatte attestazioni rilevano “in via diretta ed immediata unicamente ai
fini della retribuzione e comunque del regolare svolgimento della prestazione di
lavoro e solo indirettamente, e mediatamente, ai fini del regolare svolgimento
del servizio
” (Sez. V., n. 44689/2005, Flavio ed altro; Sez. V, n.
38770/2002, Marchese ed altri; Sez. V., n. 12789/2003, Bua ed altro; Sez. V. n.
2303/1988, Sariconi).

 

La soluzione adottata dalla Corte

La condotta di falsificazione
ideologica del pubblico ufficiale, ipotizzata dall’art. 479 c.p. (come quella
materiale di cui all’art. 476), deve sostanziarsi in una attività volta ad
attribuire un significato menzognero ad un atto formato “nell’esercizio delle
sue funzioni” pubblicistiche.

La fattispecie presuppone,
quindi, che l’autore sia dotato di una qualifica pubblica ex art. 357 e 358 c.p.
e che l’atto falsificato attenga alla sfera pubblica, essendo irrilevante la
menzogna contenuta in scritture private ex art. 485 c.p.

Viene in rilievo, pertanto,
un adempimento che il pubblico dipendente deve eseguire in riferimento al suo
rapporto di lavoro con l’Amministrazione.

L’attestazione della propria
presenza, attraverso il cartellino marcatempo o fogli di presenza, non
costituisce per il dipendente pubblico una attività inerente la propria
funzione, non è, cioè, attività finalizzata al perseguimento degli obbiettivi
dell’ente amministrativo; il dipendente, infatti, si limita ad attestare la sua
presenza sul posto di lavoro e una sua omissione in tale attestazione è
ravvisabile solo come mera violazione del suo obbligo nei confronti della
Amministrazione.

Viene a mancare un requisito
fondamentale affinchè si possa parlare di atto pubblico, trattandosi, tali
atti, di semplice scrittura privata.

E’ inevitabile, quindi,
distinguere, nell’attività del pubblico impiegato – ed in un contesto in cui il
rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti ha assunto connotazioni privatistiche
(a seguito della disciplina introdotta con il D. Lgs.vo n. 29/1993, modificata
dal D. Lgs.vo n. 80/1998, ora trasfusa nel D. Lgs.vo n. 165/2001) – “gli atti
che sono espressione della pubblica funzione e/o del pubblico servizio e che
tendono a conseguire gli obiettivi dell’ente pubblico
” da quelli “strettamente
attinenti alla prestazione” di lavoro, “ed aventi, percio’, esclusivo rilievo
sul piano contrattuale e non anche su quello funzionale
” (Cass., Sez. V, n.
12789/2003, cit.).

Secondo la costante
giurisprudenza e la prevalente dottrina, “agli effetti delle norme sul falso
documentale, il concetto di atto pubblico è più ampio rispetto a quello che si
desume dalla definizione contenuta nell’art. 2699 c.c., in quanto comprende non
soltanto quei documenti che sono redatti con le richieste formalità da un
notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica
fede, ma anche i documenti formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico
impiegato incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni,
attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine
ad assumere rilevanza giuridica
” (cosi’, fra altre, Cass., Sez. V. n.
8151/1976, Di Falco).

La falsa rappresentazione
della realtà che viene documentata deve essere rilevante in relazione alla
specifica attività del pubblico ufficiale, dovendo investire un fatto che, in
relazione al concreto esercizio della funzione o attribuzione pubblica, abbia la
potenzialità di produrre effetti giuridici”.  La nozione di atto pubblico “si
fonda sulla qualità del soggetto e sul piano del documento che si redige per
una ragione inerente all’esercizio delle pubbliche funzioni o del pubblico
servizio, o per uno scopo cui l’atto è destinato
“.

Nei reati di falso, in
generale, “funzionali (o propri), data la posizione giuridica dell’agente (che
è un pubblico ufficiale), si delinea uno stretto collegamento tra il soggetto
ed il bene, in virtù del quale la cura del bene medesimo è “affidata” al
soggetto per essere quest’ultimo titolare di un potere pubblicistico ben
individuato (il potere certificativo”), attributivo di “certezza pubblica”.

La giurisprudenza della
Suprema Corte ha, da tempo, puntualizzato che atto pubblico è “ogni scritto
redatto da un pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle sue funzioni” (Cass.,
Sez. V, n. 1576/1975, Pansa).

Tale ineludibile
collegamento tra esercizio di funzioni pubbliche ed attività falsificatoria dei
pubblici ufficiali (che “non consente di ritenere automaticamente che tutti gli
atti dagli stessi compiuti siano atti pubblici”: Cass. n. 12789/2003, cit.), non
puo’, quindi, condurre ad annoverare nella nozione di atto pubblico, rilevante
ai fini penali, attività attestative che, invece, appaiono collegate
direttamente ed immediatamente ad “istituti sicuramente riconducibili alla
disciplina privatistica” (per mutuare altra espressione dottrinaria) e che,
soprattutto, in tale ambito esauriscono la loro fun

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