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Non diffama la satira che fa sorridere – CASSAZIONE PENALE, Sezione VI Sentenza n. 9246 del 16/03/2006

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La
satira che fa sorridere ha un valore "educativo" ed è legittima. Lo ha
stabilito la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione che, decidendo un
caso di diffamazione a proposito di alcuni articoli del quotidiano "La
Repubblica" – il reato è stato dichiarato estinto per prescrizione – ha
sottolineato che la satira, che in alcuni casi puo’ essere sgradevole, ha un
"valore educativo" quando "indica alla pubblica opinione aspetti criticabili o
esecrabili di persone suscitandone il riso" (gli articoli incriminati avevano
definito "affarista" un noto personaggio della vicenda di Mani Pulite). La
Suprema Corte ha in proposito definito la satira come quella manifestazione di
pensiero che nei tempi si è addossata il compito di "castigare ridendo mores".

 


CASSAZIONE
PENALE, Sezione VI Sentenza n. 9246 del 16/03/2006 (Presidente: P. Mocali;
Relatore: G. Raggio)

A seguito di
querela sporta dall’avv. G.L., fu promossa azione penale per diffamazione
aggravata nei confronti della S., tre articoli redatti dalla quale erano stati
pubblicati sul quotidiano La Repubblica il 27/9/1996 e l’8/12/1996, e per omesso
controllo nei confronti del M., direttore del detto giornale.

Con sentenza
del 28/3/2002, il Tribunale di Roma dichiarava gli imputati colpevoli dei reati
loro ascritti, condannandoli alla pena ritenuta di giustizia.

Su gravame
dei medesimi, la Corte di appello di Roma il 14/11/2003 riformava parzialmente
la pronuncia di primo grado, condannando la S. e il M. al pagamento di 2.000,00
Euro ciascuno, a titolo di riparazione pecuniaria, ma confermandola nel resto.

Tale
decisione veniva annullata con rinvio, per vizio procedurale, da questa Corte,
con sentenza del 3/6/2004.

Il giudice di
rinvio, individuato in altra sezione della Corte di appello di Roma, assolveva,
sulla sentenza oggi esaminata, da ogni addebito la S. perchè il fatto non
costituisce reato e il M. perchè il fatto non sussiste.

Pur rilevando
la ormai intervenuta prescrizione dei reati, riteneva tale giudice di dover
emettere pronuncia assolutoria, notando anzitutto che la persona del L. era,
all’epoca, salita agli onori della cronaca in virtù della notoria amicizia con
l’allora A. D.P. e del coinvolgimento in delicate indagini processuali; dal che
derivava l’interesse pubblico alla conoscenza di fatti che la riguardassero.

Cio’
premesso, osservava il giudice a quo che i riferimenti alla persona fisica del
querelante assumevano carattere o di irrilevanza per difetto di offensività, o
di satira pittoresca, non venendone comunque deformata l’immagine del soggetto.

Il primo
articolo non affermava che i clienti dell’avv. L. avessero ricevuto un
trattamento di favore in forza della suddetta amicizia, della quale si limitava
a dare atto dell’esistenza, citando anche il veridico episodio di una
compravendita di auto e della partecipazione (ancorchè non in qualità di
fondatore) del medesimo ad una società, che peraltro aveva scopi perfettamente
leciti e che quindi non provocava alcun disonore per il soggetto citato.

Quanto a
dichiarazioni rese da tale M.R. a proposito di detta amicizia, il Tribunale
aveva frainteso il senso della smentita da costui resa, che altro non era se non
il desiderio di tenersi lontano dalla vicenda, senza peraltro negare le voci che
collegavano il L. al D.P.

E del resto,
la notizia era riportata dalla S. con estrema cautela.

Il secondo
articolo, a parte le notazioni descrittive della persona fisica del querelante,
conteneva notizie veritiere sulla carriera dell’avv. L., collocato anche
nell’ambito di una società denominata Promosud, rispetto alla quale era stata
svolta un indagine giudiziaria, che rendeva la notizia di pubblico interesse.

Del resto,
una smentita di costui circa la posizione assunta in seno alla detta
associazione (e non società) era stata pubblicata dalla giornalista.

Quanto poi
all’affermazione della S., per cui il L. faceva, più che l’avvocato,
l’intermediario di affari, si trattava di una evidente distorsione del
patrimonio professionale del soggetto, che pero’ non aveva rilevanza penale,
potendo se mai comportare titolo di risarcimento civilistico, per il mancato uso
di termini intrinsecamente offensivi.

In relazione
ai successi professionali dell’avvocato, era mera deduzione di quest’ultimo che
la S. intendesse attribuirli alla più volte ricordata amicizia; e l’unico caso
citato a sproposito non incideva sulla complessiva veridicità dell’assunto.

Nel terzo
articolo veniva citata una perquisizione nello studio del L., a proposito del
quale si rammentava che rivestiva la toga ma fondava società, il che non era
attributivo di attività disdicevoli.

E quanto alla
menzione di una contabile bancaria oggetto di procedimento penale che si sarebbe
concluso un anno dopo, l’articolista esercitava il diritto di cronaca e, citando
e non condividendo una intervista del già ricordato R., quello di critica,
contenuto in termini non diffamatori.

Avverso tale
pronuncia ricorreva per cassazione, a mezzo del suo difensore, la parte civile
L:, che denunciava violazione di legge e vizio della motivazione.

La sentenza
impugnata aveva erroneamente ricondotto nell’esercizio della satira i molteplici
richiami alla fisicità del ricorrente; la satira deve essere chiaramente
percepita come una voluta deformazione del soggetto cui si riferisce, mentre nel
caso di specie gli argomenti svolti dal giudice (che negavano tale effetto)
apparivano palesemente contraddittori ed ignoravano i limiti della continenza,
qui superati per la reiterata virulenza delle singole descrizioni, oltre tutto
in un contesto non rispondente al vero, in riferimento ad un inesistente
procedimento disciplinare a carico del L.

Quanto
all’amicizia con l’ex magistrato, non era corretto limitarsi all’esame oggettivo
delle espressioni usate, dovendosi tener conto del significato finale e
complessivo degli apprezzamenti ed apparendo evidente l’insinuazione che essa
avesse agevolato l’ascesa professionale del soggetto, con accostamenti
suggestivi tra la vita privata e quella forense.

La notizia
dell’acquisto di una Mercedes era collegata alla persona del D.P. falsamente,
essendo l’auto intestata a compagnia assicuratrice e rivenduta poi ad un prezzo
documentato come molto inferiore a quello riferito dalla giornalista.

Qualsiasi
esimente ne era allora esclusa.

La notizia
relativa alla fondazione della soc. Isi Informatica era non veridica, come
riconosciuto dalla sentenza, che contraddittoriamente poi la considerava non
diffamatoria, distaccandola dal contesto dell’articolo che aveva il chiaro scopo
di porre in cattiva luce il ricorrente.

Altrettanto
doveva dirsi per la Promosud (associazione e non società) posta in collegamento
con la qualità allora di ministro del D.P., di nuovo accostato al L. con
intento denigratorio, derivante dalla qualificazione di avvocato del malaffare;
solo una lettura parziale dell’articolo poteva giustificare l’affermata
irrilevanza penale del suo contenuto.

L’intervista
del R. era riportata in modo esasperato; il giudice di rinvio l’aveva valutata
come vera, scorrettamente interpretando altre note giornalistiche e pero’
ignorando che il suo contenuto, ancorchè cautamente riferito, integrava la
lamentata diffamazione, stante anche la risalenza nel tempo delle dichiarazioni,
frattanto ampiamente screditate.

In
particolare, il richiamo alla contabile bancaria, che di nuovo avrebbe collegato
il L. al D.P., veniva indicata come riscontro dell’intervista del R., che
peraltro non ne parlava.

Era quindi
carente ogni interesse legittimante la pubblicazione.


Sostanzialmente falsa, e illogicamente ritenuta sostanzialmente vera, la notizia
delle mancate carcerazioni che l’avv. L. avrebbe ottenuto (sempre nei modi
illeciti insinuati, definendosi il querelante come avvocato dei miracoli) per i
propri clienti; ancora una volta evocando le amicizie del ricorrente e
dimenticando le carcerazioni e le condanne subite da numerosi altri patrocinati
dal medesimo avvocato.

La falsità
della notizia escludeva l’applicazione di qualsivoglia scriminante.

Si insisteva,
quindi, per l’annullamento della sentenza impugnata.

Il ricorso è
fondato.

Il giudice
del rinvio ha ritenuto, in presenza di una causa estintiva del reato per il
quale vi era stata condanna in primo grado, che fosse evidente la prova della
irrilevanza penale della condotta tenuta dalla S. e della insussistenza
dell’omesso controllo addebitato al suo direttore, E.M., applicando quindi la
formula liberatoria dell’art. 129 c. 2 c.p.p.

A tale
conclusione è pervenuto, ritenendo che la giornalista avesse correttamente
esercitato il diritto di cronaca e che le notazioni soggettive, mediate le quali
aveva colorato il personaggio oggetto dei tre articoli, fossero esercizio di
satira; nessuna di tali argomentazioni è correttamente sostenibile.

La satira,
notoriamente, è quella manifestazioni del pensiero (talora di altissimo
livello) che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores;
ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di
persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di
carattere etico, correttivo cioè verso il bene.

E dunque,
simili indicazioni sono strettamente funzionali allo scopo, che, senza la loro
evocazione, rimarrebbe irraggiungibile; ora, tutto si puo’ dire, tranne che
quelli che la Corte territoriale ha valutato essere commenti satirici (la
forfora, lo sguardo del bottegaio) abbiano svolto, nella fattispecie, tale
compito.

Se la
giornalista intendeva informare la pubblica opinione sulle vicende che vedevano
(oggett

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