Corte Costituzionale

Spetta al legislatore ordinario la regolamentazione organica della materia dell’attribuzione del cognome ai figli legittimi – CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza n. 61 del 16/02/2006

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STATO CIVILE – ATTRIBUZIONE AUTOMATICA DEL
COGNOME PATERNO AI FIGLI LEGITTIMI – QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE –
INAMMISSIBILITA’


 

Spetta al legislatore ordinario la
regolamentazione organica della materia dell’attribuzione del cognome ai figli
legittimi. Con questa motivazione, la Corte costituzionale, pur dando atto che
il sistema, attualmente vigente nel nostro Paese, di attribuzione automatica del
cognome paterno alla prole – già superato dai maggiori Stati europei, sulla
scia delle indicazioni delle fonti convenzionali e della giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo ” costituisce il retaggio di una concezione
patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale, non più
coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale della
parità tra uomo e donna, ha tuttavia dichiarato inammissibile la relativa
questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 2,
3 e 29, secondo comma, della Costituzione, in considerazione della eterogeneità
delle soluzioni prospettabili in alternativa al censurato regime, e del vuoto di
regole che la caducazione dello stesso determinerebbe.

 


CORTE
COSTITUZIONALE, Sentenza n. 61 del 16/02/2006


(Presidente A. Marini – Relatore A. Finocchiaro)


 

RITENUTO IN FATTO

1. ” La Corte di cassazione, I Sez. civile, chiamata a decidere sul ricorso
proposto nei confronti della sentenza della Corte d’appello di Milano con la
quale si confermava la decisione del Tribunale di Milano di rigetto della
domanda dei coniugi C.A. e F.L. diretta ad ottenere la rettificazione dell’atto
di nascita della propria figlia minore nel senso che le fosse imposto il cognome
materno in luogo di quello paterno, risultante dall’atto formato dall’ufficiale
dello stato civile, in contrasto con la volontà espressa dal padre al momento
della dichiarazione di nascita, con ordinanza del 17 luglio 2004, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 2, 3 e 29, secondo comma, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale degli artt. 143-bis, 236, 237, secondo
comma, 262, 299, terzo comma, del codice civile, 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre
2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento
dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997,
n. 127), nella parte in cui prevedono che il figlio legittimo acquisti
automaticamente il cognome del padre anche quando vi sia in proposito una
diversa volontà dei coniugi, legittimamente manifestata.

Il collegio rimettente premette che la Corte territoriale ha osservato che il
silenzio del legislatore della riforma del diritto di famiglia in ordine al
cognome dei figli legittimi, pur a fronte della modifica dell’art. 144 cod. civ.
relativo al cognome della moglie, consente di desumere la persistente validità
di una norma consuetudinaria saldamente radicata nella coscienza della
collettività.

La norma relativa all’assunzione del cognome paterno da parte del figlio
legittimo, ad avviso del predetto collegio, è chiaramente desumibile dal
sistema, in quanto presupposta da una serie di disposizioni regolatrici di
fattispecie diverse.

Si richiamano, in proposito, l’art. 237, secondo comma, cod. civ, che pone tra
gli elementi costitutivi del possesso di stato l’avere portato sempre il cognome
del padre che si pretende di avere; l’art. 262 cod. civ., in materia di
riconoscimento di figlio naturale, che, al primo comma, dispone che il
contestuale riconoscimento da parte di entrambi i genitori comporta che il
figlio assuma il cognome paterno, evidentemente nello spirito della
equiparazione della prole naturale a quella legittima, e, al secondo comma, che,
in caso di successivo riconoscimento del padre, o di successivo accertamento
della paternità, il figlio puo’ assumere il cognome del padre, aggiungendolo o
sostituendolo a quello materno, in tal modo sottintendendo, secondo il collegio
a quo, una maggior rilevanza del cognome paterno; l’art. 299 cod. civ., in tema
di adozione di maggiorenni, che, al terzo comma, prevede, ancora una volta in
ragione della equiparazione della posizione del figlio adottivo a quello
legittimo, che, compiuta l’adozione da coniugi, l’adottato assuma il cognome del
marito.

Una norma attributiva al figlio legittimo del cognome paterno appare, secondo la
Corte di cassazione, presupposta anche dalla disposizione dell’art. 72, primo
comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato
civile), che vietava di imporre al bambino lo stesso prenome del padre vivente,
all’evidente scopo di evitare omonimie per avere essi già lo stesso cognome, ed
è sottintesa dal corrispondente art. 34, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000,
nonchè dall’art. 33, comma 1, del citato d.P.R., che attribuisce al figlio
legittimato ” salva la opzione esercitabile dal soggetto maggiorenne ” il
cognome del padre.

Da tali previsioni si desume, secondo il collegio rimettente, l’immanenza di una
norma che non ha trovato corpo in una disposizione espressa, ma che è tuttavia
presente nel sistema, configurandosi come traduzione in regola dello Stato di
una usanza consolidata nel tempo, alla stregua della quale il cognome del figlio
legittimo non si trasmette di padre in figlio, ma si estende ipso iure dal primo
al secondo.

Il collegio a quo dissente, percio’, dalla opinione della Corte d’appello di
Milano che ravvisa il fondamento dell’attribuzione al figlio legittimo del
cognome paterno in una consuetudine, la quale postula una reiterazione e
continuità di comportamenti conformi ad una medesima regola da parte della
generalità dei consociati nella convinzione della loro doverosità, elementi
non riscontrabili nella vicenda dell’attribuzione del cognome paterno, segnata
da un’attività vincolata dell’ufficiale dello stato civile, a fronte della
quale la volontà ed il convincimento dei singoli dichiaranti non trovano
spazio.

Del resto, si rileva nella ordinanza, una siffatta consuetudine sarebbe contra
legem, in quanto contrastante con la legge di riforma del diritto di famiglia,
che delinea su basi paritarie il nuovo modello della famiglia, oltre che con i
principi costituzionali di riferimento, e, come tale, sarebbe suscettibile di
disapplicazione da parte del giudice.

Cio’ posto, il collegio rimettente, fattosi carico delle precedenti pronunce di
inammissibilità di analoghe questioni di legittimità costituzionale (ordinanze
n. 176 e n. 586 del 1988), ritiene che il lungo tempo trascorso, ed il maturarsi
di una diversa sensibilità nella collettività e di diversi valori di
riferimento, nonchè gli impegni imposti da convenzioni internazionali, e le
sollecitazioni provenienti dalle istituzioni comunitarie, richiedano una nuova
valutazione della conformità della norma denunciata agli artt. 2, 3 e 29,
secondo comma, della Costituzione.

In particolare, con riguardo al denunciato contrasto con il citato art. 2 della
Costituzione, si pone in evidenza il carattere di detto parametro quale norma a
fattispecie aperta, diretta a recepire e garantire le nuove esigenze di tutela
della persona, sottolineandosi il diritto alla identità personale, del quale il
nome costituisce il primo, e più immediato, elemento caratterizzante, e
rilevandosi che la tutela costituzionale offerta dall’invocato art. 2 ai diritti
dell’uomo “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” esige che
il diritto di cui si tratta sia garantito, nell’ambito di quella formazione
sociale primaria che è la famiglia, nella duplice direzione del diritto della
madre di trasmettere il proprio cognome al figlio e di quello del figlio di
acquisire segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori,
testimoniando la continuità della sua storia familiare anche con riferimento
alla linea materna.

Quanto al sospetto di contrasto con l’art. 3 della Costituzione, esso si fonda
sul rilievo che l’attribuzione, automatica ed indefettibile, ai figli del
cognome paterno si risolve in una discriminazione ed in una violazione del
principio fondamentale di uguaglianza e di pari dignità, che, nella legge di
riforma del diritto di famiglia, trova espressione sia con riferimento ai
rapporti tra coniugi ” i quali, ai sensi dell’art. 143 cod. civ., acquistano gli
stessi diritti e assumono i medesimi doveri ” sia con riguardo al rapporto con i
figli, nei cui confronti l’art. 147 cod. civ. impone ai coniugi obblighi di
identico contenuto.

La Corte di cassazione sospetta, poi, il contrasto con l’art. 29, secondo comma,
della Costituzione, rilevando che il necessario bilanciamento tra l’esigenza di
tutela della unità familiare, cui è riconosciuta copertura costituzionale, e
la piena realizzazione del principio di uguaglianza non è correttamente
perseguibile attraverso una norma cosi’ marcatamente discriminatoria, tenuto
anche conto che l’unità familiare si rafforza nella misura in cui i rapporti
tra i coniugi siano governati dalla solidarietà e dalla parità.

Pertanto, il principio di uguaglianza tra i coniugi, che costituisce
esplicazione del principio fondamentale di cui all’art. 3 della Costituzione, in
quanto funzionale alla realizzazione della unità familiare, non puo’ connotarsi
solo in chiave negativa, come divieto di ogni discriminazione fondata sul sesso,
ma implica anche, sottolinea il Collegio rimettente, il riconoscimento di una
uguale responsabilità dei coniugi nello svolgimento in concreto dei rapporti
familiari, nel quadro di una reciproca solidarietà.

Si osserva, al riguardo, nella ordinanza di rimessione che il limite alla
uguaglianza dei coniugi a tutela della unità della famiglia puo’ trovare
giustificazione solo in presenza di situazioni che rendano indispensabile una
specifica previsione normativa, e che comunque, in siffatte ipotesi, la
soluzione legislativa che privilegi uno dei coniugi rispetto all’altro non puo’
essere ancorata al criterio del sesso del coniuge designato, non tollerando nè
il principio di cui all’art. 3 della Costituzione, nè le varie convenzioni
internazionali sui diritti umani, cui l’Italia ha aderito, discriminazioni
basate sul sesso.

Del resto, il Collegio rimettente dubita che la soluzione adottata sia
effettivamente indispensabile per assicurare l’unità familiare, escludendo che
le altre soluzioni praticabili, ispirate, come nella fattispecie all’esame della
Corte, al criterio della scelta preventiva dei coniugi, o a quello del doppio
cognome, possano costituire attentato all’unità ed alla stabilità della
famiglia, e richiamando le numerose esperienze di altri Paesi la cui
legislazione si è già mossa nel senso auspicato.

Nè vale in contrario, si legge nella ordinanza di rimessione, il rilievo che il
superamento del principio di immediata ed automatica attribuzione di un unico e
predeterminato cognome creerebbe problemi ed incertezze nel sistema: la
esplicazione del fondamentale principio costituzionale di uguaglianza non puo’ ”
osserva al riguardo il Collegio a quo ” arrestarsi in presenza di inconvenienti,
pur seri, ma suscettibili di essere risolti in via legislativa.

2. ” Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti i coniugi C.A. e F.L.
manifestando, preliminarmente, con riguardo alla questione della fonte della
norma di cui si discute, l’avviso che essa si identifichi nella consuetudine. Al
riguardo, si rileva che i dati testuali indicati nella ordinanza di rimessione
non autorizzerebbero, per la loro eterogeneità e per il loro stesso contenuto,
la deduzione della esistenza della regola non scritta individuata dal collegio
rimettente.

Nel merito, la difesa della parte costituita condivide il sospetto di
illegittimità costituzionale avanzato dalla Corte di cassazione, escludendo, in
particolare, ogni correlazione tra la prevalenza maritale nella trasmissione del
cognome e la tutela dell’unità familiare. In proposito, si osserva che non
trova alcun conforto nella Costituzione una nozione di unità della famiglia
come unitarietà della stirpe attraverso le generazioni, che teoricamente
potrebbe essere tutelata attraverso la identificazione della stessa famiglia con
il medesimo cognome per tutte le generazioni. E nemmeno potrebbe accogliersi una
concezione autoritaria più o meno accentuata delle relazioni familiari, di cui
la trasmissione del cognome paterno sarebbe espressione, e che è ormai da
decenni completamente abbandonata. Al contrario, la tutela della unità
familiare trova più adeguata e duratura garanzia proprio nel rafforzamento
della parità tra coniugi.

Nè il pur rilevante interesse dello Stato alla identificazione dei propri
cittadini sarebbe messo in discussione dalla opzione dei genitori, da
effettuarsi all’atto della registrazione anagrafica del neonato, in ordine al
cognome da trasmettergli, se quello paterno o quello materno, come potrebbe,
invece, ipotizzarsi se fosse introdotta la possibilità per gli individui di
cambiare ad arbitrio il proprio nome (anche se gli attuali sistemi di
registrazione anagrafica del figlio neonato, caratterizzati da rapidità di
accesso, renderebbero gestibile pure una situazione di tal fatta).

3. ” Nell’imminenza dell’udienza pubblica, i coniugi C.A. e F.L. hanno
depositato memoria, con la quale rilevano che i dati testuali indicati nella
ordinanza di rimessione non autorizzerebbero, per la loro eterogeneità e per il
loro stesso contenuto, la deduzione della esistenza della norma individuata dal
collegio rimettente. In particolare, quanto all’art. 237 cod. civ., che elenca
una serie di fatti indicativi di una relazione di parentela, si osserva che il
ritenere che la persona che abbia sempre portato il cognome del padre che
pretende di avere sia indicativo del possesso di stato non presuppone una
giuridica obbligatorietà della trasmissione del cognome paterno, ma, se mai, la
constatazione che, secondo l’id quod plerumque accidit, le persone portano il
cognome del padre. Analoga valenza sarebbe da attribuire all’art. 34 del d.P.R.
n. 396 del 2000, che vieta la imposizione del prenome paterno, all’evidente
scopo di evitare omonimie, nella considerazione che generalmente le p

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