Civile

Divorzio: assegnmo di mantenimento per l’ex marito che è senza lavoro CASSAZIONE CIVILE, Sezione I, Sentenza n. 21393 del 04/11/2005

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In
caso di divorzio la ex moglie che percepisca un reddito di gran lunga superiore
a quello dell’ex marito rimasto senza lavoro puo’ essere obbligata a versare un
assegno di mantenimento.  E’ quanto afferma la Prima Sezione Civile della Corte
di Cassazione, secondo cui non vi alcuna correlazione tra l’assegno di divorzio
e l’importo della pensione sociale. Il diritto all’assegno matura in capo al
coniuge che si trovi in difficoltà economiche che non gli consentano un tenore
di vita analogo a quello tenuto durante il matrimonio, e che l’assegno di
mantenimento puo’ essere attribuito indipendentemente dal fatto che il coniuge
ricorrente avesse chiesto gli alimenti, in quanto questo ha natura più ampia e
deve tenere conto del reddito di entrambi i coniugi.

 

CASSAZIONE CIVILE, Sezione
I, Sentenza n. 21393 del 04/11/2005


 (Presidente: A.
Saggio; Relatore: M. R. San Giorgio)


LA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE


SEZIONE I
CIVILE


SENTENZA


SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO

Con sentenza
in data 25 maggio 1999, il Tribunale di Trieste pronuncio’ il divorzio tra A. S.
e M. V., e, con successiva pronuncia in data 4 giugno 2001, pose a carico della
ex moglie l’obbligo di corrispondere in favore del S. un assegno divorziale
nella misura di L. 300.000 mensili, un considerazione del fatto che lo stesso era
privo di redditi mentre la V. godeva di uno stipendio mensile di L. 3.500.000.

La decorrenza
di detto assegno venne fissata al 1° luglio 2001, ferme le precedenti
provvisorie determinazioni concernenti l’attribuzione al S. di un contributo per
il suo mantenimento di L. 400.00 mensili.

Le spese del
giudizio furono compensate.

Avverso tale
decisione il S. propose appello con atto depositato il 10 luglio 2001, in cui,
premesso di essere privo di reddito in quanto disoccupato, e che l’assegno gli
spettava a titolo di alimenti, come già da lui richiesto già nel novembre del
1998, mentre era in corso il giudizio per il divorzio, e solo in subordine ex
art. 5 della legge n. 898 del 1970, chiese alla Corte di merito di elevare la
misura dell’assegno a L. 1.200.000, fissandone la decorrenza dal 10 novembre
1998, cioè dalla data della domanda, anzichè, come stabilito dal Tribunale,
dalla sentenza.

Chiese
altresi’ la determinazione di idonea garanzia a carico della V., al fine di
evitare fraudolenti depauperamenti del patrimonio della stessa, nonchè la
condanna della stesa ai danni ex art. 96 cod. proc. civ., ed alle spese
processuali di entrambi i gradi con distrazione a favore dell’anticipatario avv.
S.

La Corte di
appello di Trieste, con sentenza depositata in data 4 settembre 2002, escluso
che la domanda di alimenti riguardasse la causa, e premesso che l’assegno
divorzile è diretto a salvaguardare almeno tendenzialmente il tenore di vita
goduto dal coniuge meno favorito in costanza di matrimonio, ma prima ancora le
esigenze di sopravvivenza dello stesso, e che esso ha quindi un ambito più
ampio rispetto al diritto agli alimenti, elevo’ la misura dell’assegno stesso ad
Euro 207,00 mensili, con decorrenza dal 1° dicembre 1998, e cioè dalla domanda,
qualificata, all’epoca, di alimenti, cio’ che avrebbe prodotto l’effetto del
ricongiungimento di detto assegno con quello di pari importo già riconosciuto
dal giudice istruttore dal 1 agosto 2000.

La Corte di
merito rigetto’ invece le richieste concernenti i danni ex art. 96 cod. proc.
civ. e le garanzie per l pagamento, rilevando che la V. aveva in buona parte
vittoriosamente resistito e agito nei gradi del giudizio, e non aveva mai omesso
di versare al S. quanto riconosciuto dai giudici a suo favore.

Infine, la
Corte confermo’ la decisione impugnata quanto alla pronuncia sulle spese, e
dispose la compensazione delle spese del secondo grado di giudizio.

Avverso tale
decisione propone ricorso per cassazione il S., affidandolo a quattro motivi.

Resiste la
V., che a sua volta ha proposto ricorso incidentale.


MOTIVI DELLA
DECISIONE

Deve
preliminarmente disporsi, ex art. 335 cod. proc. civ., la riunione dei ricorsi,
in quanto proposti nei confronti della medesima sentenza.

Con il primo
motivo del ricorso principale, si lamenta violazione e falsa applicazione degli
artt. 438 e 433 cod. civ., 112 cod. proc. civ., 5, primo comma, n. 6, della
legge n. 898 del 1970, nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione.

La Corte di
merito, in contraddizione con le proprie stesse affermazioni in ordine alla
finalizzazione dell’assegno divorziale alla salvaguardia delle esigenze di
sopravvivenza del coniuge beneficiato, avrebbe, nella specie, determinato l’entità
dell’assegno in una misura del tutto inadeguata al predetto scopo, in quanto
inferiore anche all’ammontare della pensione minima sociale, pari ad Euro
516,00.

Il motivo è
inammissibile, atteso che con esso si censurano violazioni di fatto, e, in
particolare, la entità dell’assegno come conseguenza dell’affermazione e del
riconoscimento delle esigenze di sopravvivenza dell’ex marito.

Ne è
ammissibile, per le stesse ragioni, la richiesta rivolta a questa Corte di
fissare, in via generale, una misura minima dell’assegno divorziale, da far
coincidere con l’ammontare della pensione minima sociale, tenuto conto che una
siffatta scelta non rientra certamente nei poteri del giudice di legittimità.

E’, comunque,
da escludere l’esistenza di alcuna correlazione tra la pensione sociale, con il
limite minimo, e l’entità dell’assegno di cui trattasi, il quale è attribuito
in base a criteri autonomi e correlato al reddito del coniuge onerato.

Con il
secondo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 8, primo
comma, della legge n. 898 del 1970, nonchè insufficiente od omessa motivazione.

Avrebbe
errato il giudice di seconde cure a rigettare la richiesta del ricorrente di
ottenere garanzie circa il puntuale pagamento dell’assegno posto a carico della
ex coniuge, avuto riguardo della circostanza che detto assegno, pur spedito
tempestivamente, verrebbe sistematicamente consegnato in ritardo dall’agente
postale.

Detto motivo
è infondato.

Nella
esplicazione dello stesso, si ammette la puntualità nella spedizione
dell’assegno, ascrivendo poi il ritardo nella ricezione dello stesso al servizio
postale, e, contraddittoriamente, si chiedono garanzie per l’adempimento
dell’obbligo.

Con il terzo
motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 96 cod. proc. civ.
nonchè insufficiente e carente motivazione.

La V.,
resistendo alla domanda del ricorrente, e, quindi, rifiutando di adempiere il
proprio dovere di sostentamento nei confronti dell’ex coniuge, lo avrebbe
costretto con colpa grave a ricorrere al credito da parte di conoscenti,
cagionandogli danni che avrebbe dovuto essere condannata a risarcirgli.

Anche tale
motivo è infondato.

Mancano,
infatti, nella specie i presupposti per l’applicabilità della norma invocata
dal ricorrente.

Con riguardo
alla condanna al risarcimento del danno ex art. 96 cod. proc. civ., è onere
della parte che richiede il risarcimento dedurre e dimostrare la concreta ed
effettiva esistenza di un danno in conseguenza del comportamento processuale
della controparte, sicchè il giudice non puo’ liquidare il danno, neppure
equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad identificarne
concretamente l’esistenza, desumibili anche da nozioni di comune esperienza e
dal pregiudizio che la parte resistente abbia subito per essere stata costretta
a contrastare un’iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario.

Nella specie,
la Corte d’appello ha correttamente posto in rilievo che la V. aveva agito e
resistito in buona parte vittoriosamente, oltre a non essersi mai sottratta ai
suoi obblighi verso l’ex coniuge, cio’ che esclude all’evidenza la
configurabilità di un’ipotesi di responsabilità ex art. 96 del codice di rito.

Infine, con
il quarto motivo, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod.
proc. civ., nonchè motivazione insufficiente e contraddittoria.

Avrebbe
errato la Corte di merito nel disporre la compensazione delle spese del
giudizio, in quanto la condanna della V. a versare al ricorrente la somma di
Euro 207,00 mensili implica soccombenza, con la conseguenza che la donna avrebbe
dovuto essere condannata al pagamento delle spese processuali, anche con
riferimento al primo grado, oltre che al secondo grado, del giudizio, con
distrazione delle stesse al difensore antistatario ex art. 93 cod. proc. civ.

Il motivo è
inammissibile.

In tema di
spese processuali, la statuizione sulle spese adottata dal giudice di merito è
sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione del divieto,
posto dall’art. 9 cod. proc. civ., di porre anche parzialmente le spese a carico
della parte vittoriosa o nel caso di compensazione delle spese stesse fra le
parti adottata con motivazione illogica o erronea, mentre in ogni alto caso e in
particolare ove il giudice, pur se in assenza di qualsiasi motivazione, abbia
compensato le spese o al contrario le abbia poste a carico del soccombente, la
statuizione è insindacabile in sede di legittimità.

Il ricorso
principale va, per quanto fin qui evidenziato, rigettato.

Con il pri

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