Civile

Tassabili le somme indebitamente percepite per una “tangente” – CASSAZIONE CIVILE, Sezione V, Sentenza n. 20061 del 24/10/2005

Tasse
anche sulle somme percepite a titolo di tangenti. E’ quanto stabilito dalla
Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso di un
noto manager implicato nella vicenda ENIMONT. Invano l’imputato aveva sostenuto
di non essersi mai appropriato delle somme contestate, in quanto destinate ad un
finanziamento occulto a partiti politici, assumendo la propria testimonianza nel
procedimento penale per appropriazione indebita come irrilevante nel processo
tributario. La Suprema Corte – dopo avere affermato la piena utilizzabilità di
dichiarazioni confessorie rese in sede penale anche nel processo tributario – ha
rilevato che il ricorrente in appello aveva sostenuto la tesi, esattamente
opposta, che le somme in questione non fossero tassabili proprio in quanto
provento del reato di appropriazione indebita e tale assunto era stato
disatteso, con adeguata motivazione, dalla Commissione tributaria regionale, in
base alla considerazione che lo stesso contribuente, nelle dichiarazioni rese al
Pubblico Ministero, aveva qualificato dette somme come redditi di lavoro
autonomo percepiti nella dichiarata qualità di top manager e ricompensa del
lavoro svolto; per tali motivi le somme percepite possono essere regolarmente
tassate.

 


CASSAZIONE
CIVILE, Sezione V, Sentenza n. 20061 del 24/10/2005


 (Presidente:
U. Favara; Relatore: U. D’Alessandro)


LA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE


SEZIONE
TRIBUTARIA


SENTENZA


SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO

A seguito di
un rapporto del nucleo di P.T. della Guardia di Finanza di Milano, relativo ad
indagini di P.G. riguardanti la cosiddetta vicenda ENIMONT, l’Ufficio
Distrettuale delle Imposte Dirette di Ravenna accerto’ ai fini IRPEF ed ILOR per
l’anno 1991 un maggior reddito non dichiarato da C. S. di L. 820.000.000.

Contro
l’avviso di accertamento notificatogli il 19/4/1994 il S. propose ricorso alla
Commissione tributaria di 1° grado di Ravenna, che successivamente sospese il
giudizio in considerazione della pendenza presso il Tribunale di Milano di un
procedimento penale a carico dello stesso S. per il reato di appropriazione
indebita proprio in relazione alla disponibilità della somma in questione.

Venne
successivamente notificato al S., in data 28/10/1996, un avviso di accertamento
integrativo nel quale, richiamato il precedente accertamento, erano inoltre
recuperati a tassazione redditi di lavoro autonomo non dichiarati, sempre per
l’anno 1991, per un importo di L. 3.000.000.000, sulla base di dichiarazioni rese
al medesimo S. dinanzi al Procuratore della Repubblica di Milano ed acquisite ai
sensi dell’art. 33, comma 3, del D.P.R. n. 600 del1973.

Anche il
secondo avviso di accertamento venne impugnato dal contribuente.

Il giudice
tributario, revocata la precedente ordinanza di sospensione relativa al primo
accertamento, rigetto’ il ricorso ritenendo adeguatamente provata la pretesa
dell’Ufficio sulla base delle dichiarazioni confessorie rese dallo steso
contribuente nel procedimento penale.

Contro la
sentenza di primo grado interpose appello il S., in sostanza deducendo
l’inutilizzabilità nel processo tributario delle prove orali acquisite in sede
penale, l’intassabilità dei maggiori introiti accertati, in quanto provento di
reato, e la natura comunque non reddituale degli introiti stessi.

L’appello
venne rigettato dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna.

Contro la
sentenza di secondo grado il S. propone ricorso per cassazione (notificato il
16/9/1999 e depositato il 5/10/1999(, affidato a quattro motivi.


L’Amministrazione finanziaria resiste con controricorso.


MOTIVI DELLA
DECISIONE

Con il primo
motivo il ricorrente, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione
degli artt. 23, comma 1, 54 e 56 del D.Lgs. n. 546 del 1992, censura la sentenza
impugnata per aver ritenuto ammissibile, pur in presenza di una rituale
eccezione, la tardiva costituzione in giudizio dell’Ufficio in appello.

Al riguardo,
il ricorrente muove dal presupposto che l’art. 56 del D.Lgs. n. 546 del 1992
debba essere interpretato nel senso che anche la parte vittoriosa in primo grado
deve costituirsi, in appello, nel termine previsto dall’art. 23, comma 1,
richiamato dall’art. 54, pena la formazione di un giudicato interno preclusivo
di tutte le questioni non tempestivamente riproposte, pur se accolte in primo
grado.

Il mezzo è
inammissibile, attenendo ad una questione totalmente irrilevante ai fini della
decisione.


Contrariamente a quanto il ricorrente ritiene, infatti, la tardiva o anche la
mancata costituzione dell’appellato, totalmente vittorioso in primo grado, non
comporta alcuna preclusione riguardo alla disamina, da parte del secondo
giudice, delle questioni ed eccezioni accolte nella sentenza oggetto di gravame,
riferendosi espressamente la preclusione di cui all’art. 56 del D.Lgs. n. 546
del 1992 alle sole questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della
commissione provinciale.

Tanto basta a
rendere superfluo l’esame del mezzo.

Con il
secondo motivo il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione
dell’art. 33, comma 3, del DPR n. 600 del 1973, deduce l’inutilizzabilità, ai
fini tributari, degli atti del processo penale posti a base dell’accertamento,
poichè sarebbero stati acquisiti illegittimamente, in base all’autorizzazione
di un organo giudiziario diverso da quello competente ai sensi dell’art. 116,
comma 2, c.p.p.

Anche il
secondo motivo è inammissibile, in quanto nuovo, trattandosi di un profilo per
la prima volta evocato, tardivamente, con una memoria depositata nel corso del
giudizio di appello e per tale motivo non esaminato dal giudice di secondo
grado.

Giova in ogni
caso ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’autorizzazione
prevista dall’art. 33, comma 3, del DPR n. 600 del 1973 è posta a tutela della
riservatezza delle indagini penali e non dei soggetti coinvolti nel relativo
procedimento o di terzi, cosicchè nessuna conseguenza puo’ derivare, quanto
all’utilizzabilità degli atti, dall’incompetenza dell’organo che l’ha concessa
(Cass., 15538/02).

Con il terzo
motivo il S. si duole, sotto l’esclusivo profilo della omessa e contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia, della acritica
utilizzazione da parte del giudice di secondo grado, quali mezzi di prova, delle
dichiarazioni da lui rese nel procedimento penale.

Il terzo
motivo è infondato.

La questione
relativa alla natura ed al valore probatorio delle dichiarazioni rese dal S. in
sede penale, in qualità di indagato, ha costituito oggetto di specifico esame
da parte del giudice di secondo grado (pagg. 11,13 della sentenza), il quale,
dopo aver correttamente escluso che tali dichiarazioni siano assimilabili a
testimonianze, proprio in quanto provenienti dal contribuente indagato, conclude
con adeguata e coerente motivazione nel senso di attribuire ad esse valore di
dichiarazioni confessorie, liberamente valutabili dal giudice tributario e nella
specie idonee a costituire prova esclusiva della fondatezza dell’accertamento,
anche perchè mai ritrattate dallo stesso contribuente.

Il principio
secondo cui la confessione resa in sede penale è utilizzabile dal giudice
tributario anche come prova esclusiva della pretesa tributaria è d’altro canto
conforme alla giurisprudenza di questa Corte (Cass., 9320/03).

La sentenza
impugnata risulta dunque immune dal dedotto vizio di motivazione sotto il
profilo considerato.

Con il quarto
ed ultimo motivo il ricorrente lamenta omessa e contraddittoria motivazione in
ordine alla natura reddituale ed alla conseguente tassabilità delle maggiori
somme accertate dall’Ufficio, che assume oltre tutto non provate quanto al loro
ammontare.

In
particolare, deduce di non essersi mai appropriato delle somme di cui si tratta,
che avrebbe ricevuto al solo fine di effettuare un finanziamento occulto a
partiti politici, come del resto sarebbe confermato dalla sentenza con cui
questa stessa Corte, riformando la sentenza di condanna emessa dalla Corte di
appello di Milano, ha escluso che nella fattispecie ricorresse il reato di
appropriazione indebita.

Il quarto
motivo è inammissibile, in quanto fondato su una prospettazione di fatto del
tutto nuova.

In appello il
S. aveva infatti sostenuto la tesi, esattamente opposta, che le somme in
questione fossero intassabili proprio in quanto provento del reato di
appropriazione indebita e tale assunto era stato disatteso, con adeguata
motivazione, dalla Commissione tributaria regionale (pagg. 13 e 14 della
sentenza), in base alla considerazione che lo stesso contribuente, nelle
dichiarazioni rese al Pubblico Ministero, aveva qualificato dette somme come
redditi di lavoro autonomo percepiti nella dichiarata qualità di top manager e
ricompensa del lavoro svolto.

Circa il
quantum, è sufficiente rilevare che nessuna contestazione al riguardo era stata
sollevata in sede di appello.

Il ricorso
va, conclusivamente, rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese, che si liquidano in Euro 7.200,00 di cui Euro 7.000,00 per onorari,
oltre spese generali ed accessori di legge.


P.Q.M.

La Corte
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che
liquida in Euro 7.200,00, di cui Euro 7.000,00 per onorari, oltre spese generali
ed accessori di legge.

1° giugno
2005.

Depositata in
Cancelleria il 24 ottobre 2005.

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