Penale

Associazione Mafiosa. Condizioni per la sussistenza del concorso esterno in ipotesi di voto di scambio – CASSAZIONE PENALE, Sezioni Unite, Sentenza n. 33748 del 20/09/2005


ASSOCIAZIONE MAFIOSA – SCAMBIO ELETTORALE
POLITICO-MAFIOSO – CONCORSO ESTERNO – CONDIZIONI

E’ configurabile il concorso esterno nel reato
di associazione di tipo mafioso nell’ipotesi di scambio elettorale
politico-mafioso, in forza del quale il personaggio politico, a fronte del
richiesto appoggio dell’associazione nella competizione elettorale, s’impegna ad
attivarsi una volta eletto a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere
organicamente inserito in esso, a condizione che:
a) gli impegni assunti dal politico, per l’affidabilità dei protagonisti
dell’accordo, per i caratteri strutturali dell’associazione, per il contesto di
riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della
serietà e della concretezza;
b) all’esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale
risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica
plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso
effettivamente e significativamente, di per sè e a prescindere da successive ed
eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul
rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o
di sue articolazioni settoriali.
PROVE – SENTENZE NON DEFINITIVE – UTILIZZABILITA’ PROBATORIA – LIMITI
Le sentenze pronunciate in procedimenti penali diversi e non ancora divenute
irrevocabili, legittimamente acquisite al fascicolo per il dibattimento nel
contraddittorio fra le parti, possono essere utilizzate come prova limitatamente
all’esistenza della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate,
ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti
oggetto di accertamento in quei procedimenti.

 

 


CASSAZIONE
PENALE, Sezioni Unite, Sentenza n. 33748 del 20/09/2005


(Presidente N. Marvulli, Relatore G. Canzio)

(OMISSIS)RITENUTO IN FATTO


Considerato in diritto

1. ” Il ricorrente ha riproposto innanzitutto la questione di inammissibilità
(o solo parziale ammissibilità nei limiti del devolutum) dell’appello del
pubblico ministero, per difetto di specificità dei motivi, sul rilievo che il
P.M. aveva genericamente censurato “tutti i capitoli della sentenza impugnata”
per l’asserita atomizzazione e frammentazione del materiale probatorio,
sostenendo la critica con riferimento solo a taluni episodi esemplificativamente
citati per argomentare la sussistenza degli estremi del reato contestato: il che
avrebbe prodotto l’effetto di circoscrivere la materia devoluta alla cognizione
del giudice dell’appello, con la contestuale implicita rinuncia alla verifica
della valenza probatoria di tutti gli elementi di fatto non espressamente
citati, da reputarsi ormai coperti da giudicato.

E siffatto onere di specificazione dei punti della sentenza da devolvere al
giudice di appello, insieme con i motivi di dissenso, non poteva ritenersi
assolto dal pubblico ministero attraverso il rinvio per relationem ad un atto
(la memoria riepilogativa depositata nel giudizio di primo grado) antecedente
alla pronuncia della sentenza, non essendo consentita la mera riproposizione di
argomenti vanamente prospettati al primo giudice.

Il motivo di impugnazione è privo di pregio poichè, come ha esattamente
rilevato la Corte palermitana, risulta devoluto dall’appello del P.M. al giudice
di secondo grado il punto cruciale della sussistenza o meno del contestato reato
di concorso esterno in associazione mafiosa, mediante specifiche e articolate
critiche al metodo di valutazione del compendio probatorio del primo giudice, a
prescindere dalle singole argomentazioni logiche portate a sostegno della tesi
accusatoria e del petitum oggetto del gravame (Sez. Un., 27/9/1995, Timpanaro,
Cass. pen. 1996, 1398) e nonostante l’improprio richiamo dell’appellante ad una
memoria redatta in prime cure, funzionale alla rilettura dei singoli episodi
probatoriamente valorizzati come sintomatici della contiguità mafiosa
dell’imputato.

D’altra parte è pacifico in dottrina e in giurisprudenza che l’appello del
pubblico ministero contro la sentenza assolutoria emessa dal giudice del
dibattimento, salva l’esigenza di contenere la pronuncia nei limiti
dell’originaria contestazione, ha effetto “pienamente devolutivo”, attribuendo
tradizionalmente al giudice ad quem gli ampi poteri decisori elencati negli artt.
515 comma 2 cod. proc. pen. 1930 e 597 comma 2 lett. b) del vigente codice di
rito (Sez. Un., 31/3/2004, Donelli, Cass. pen. 2004, 2746). Cio’ comporta, da un
lato, che il giudice dell’appello è legittimato a verificare tutte le
risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della motivazione della
sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica,
non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate con i motivi di
appello, e dall’altro che l’imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio
e puo’ riproporre, anche se respinte, tutte le istanze difensive che concernono
la ricostruzione probatoria del fatto e la sussistenza delle condizioni che
configurano gli estremi del reato, in riferimento alle quali il giudice
dell’appello non puo’ sottrarsi all’onere di esprimere le sue determinazioni.

2. ” Il ricorrente ha eccepito altresi’ l’illegittimità costituzionale
dell’art. 570 (rectius: 593 comma 1) cod. proc. pen., per contrasto con le
garanzie del diritto di difesa e del contraddittorio nella formazione della
prova assicurate dagli artt. 24 comma 2 e 111 Cost., nella parte in cui non
prevede che il pubblico ministero non possa proporre appello avverso la sentenza
assolutoria di primo grado. Si sostiene che l’appello del pubblico ministero sia
privo di rango costituzionale e contrasti con i diritti difensivi quando viene
esercitato contro una sentenza di assoluzione poichè il gravame, che nello
stesso caso è precluso all’imputato, determina il devolutum impedendo il
rilievo di eventuali nullità o profili di incompetenza sollevati e respinti dal
primo giudice e l’escussione di prove a discarico non ammesse in prime cure nè
riproposte in appello. Quanto al denunziato sacrificio del contraddittorio nella
formazione della prova, nel giudizio di appello promosso dall’esclusivo gravame
del P.M. l’imputato subisce il controllo che la Corte effettua sugli atti
probatori già acquisiti, senza possibilità di partecipare alla formazione
della conoscenza di quel giudice, col rischio della reformatio in pejus
conseguente al mero esercizio del diritto potestativo del pubblico ministero
appellante.

Ritiene il Collegio che i prospettati dubbi di costituzionalità siano
manifestamente infondati.

Si è già detto che, in virtù del carattere ampiamente devolutivo del giudizio
di appello instaurato a seguito di impugnazione del P.M. contro la pronunzia
assolutoria, l’imputato ha il diritto di riproporre ogni questione sostanziale e
processuale già posta e disattesa in primo grado.

Va inoltre sottolineato che, nella prospettiva ermeneutica disegnata dalle
Sezioni Unite con la sentenza 30/10/2003, Andreotti (Cass. pen. 2004, 811) in
coerenza con le disposizioni di diritto internazionale pattizio di cui all’art.
14.5 Patto intern. dir. civ. e pol. ed all’art. 2.2 Protocollo n. 7 Conv. eur.
dir. uomo, la garanzia apprestata dall’ordinamento processuale interno, per la
verifica di legittimità della condanna dell’imputato intervenuta in appello
dopo l’assoluzione in primo grado, riveste carattere “sostanziale” in termini di
effettività del sindacato di legittimità ex art. 606 comma 1 lett. e) cod.
proc. pen., a fronte della mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione
della sentenza di condanna derivante dall’omessa valutazione di prove decisive
per il proscioglimento dell’imputato da parte del giudice di appello e, ancor
prima, del giudice di primo grado che pure lo aveva assolto. Ai fini della
rilevabilità del vizio di prova omessa decisiva, la Corte di cassazione puo’ e
deve fare riferimento, pertanto, non solo alla sentenza assolutoria di primo
grado, ma anche alle memorie ed agli atti con i quali la difesa, nel contestare
il gravame del pubblico ministero, abbia prospettato al giudice di appello
l’avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e
nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell’economia di
quel giudizio, oltre quelle apprezzate ed utilizzate per fondare la decisione
assolutoria. Con il lineare corollario che la mancata risposta del giudice di
appello alle argomentazioni svolte dalla difesa nel contraddittorio
dibattimentale circa la portata di decisive risultanze probatorie, conducente
all’illegittimo esercizio del potere demolitorio della sentenza di assoluzione
di primo grado ad opera di un giudice che ha valutato solo il carteggio
processuale, inficia la tenuta “informativa” e “logico-argomentativa” della
sentenza di condanna e, a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato, la rende suscettibile di annullamento.

Nè va sottaciuto il principio più volte affermato dalla giurisprudenza di
legittimità, secondo il quale il giudice di appello che riformi totalmente la
sentenza di primo grado, sostituendo all’assoluzione l’affermazione di
colpevolezza dell’imputato, ha l’obbligo di dimostrarne con rigorosa analisi
critica l’incompletezza o l’incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente
giustificato il rovesciamento della statuizione assolutoria in quella di
condanna.

Di talchè, ferma restando la discrezionalità delle scelte legislative quanto
alla riperimetrazione delle opzioni decisorie consentite al giudice di appello,
ritiene il Collegio, alla stregua della formulata soluzione interpretativa, che
le fondamentali garanzie di cui agli artt. 24 comma 2 e 111 Cost. attinenti al
pieno esercizio delle facoltà difensive, anche per i profili della formazione
della prova nel contraddittorio fra le parti e dell’obbligo di valutazione della
stessa nel rispetto dei canoni di legalità e razionalità, siano riconosciute
ed assicurate nel giudizio di appello instaurato a seguito dell’impugnazione del
pubblico ministero contro la sentenza assolutoria di primo grado.

3. ” Chiamata a pronunziarsi sull’appello del pubblico ministero, che aveva
censurato la prima decisione per non avere osservato i principi
giurisprudenziali in tema di requisiti della fattispecie di concorso esterno in
associazione mafiosa, per essersi disancorata dai dati certi costituiti dalle
plurime e convergenti dichiarazioni, dirette o de relato, dei collaboratori e
per avere valutato frammentariamente la portata dei numerosi indizi raccolti a
carico dell’imputato, la Corte di appello di Palermo, criticata la
“destoricizzazione e destrutturazione” del compendio probatorio effettuate dal
primo giudice, all’esito di una rinnovata disamina dei fatti ha dichiarato il
Mannino colpevole del reato di cui agli artt. 110 e 416 bis cod. pen..

Premesso che costituisce un compito davvero arduo procedere a una ordinata
esposizione del ragionamento probatorio della sentenza di secondo grado per la
palese farraginosità dei passaggi argomentativi (taluni temi vengono prima
trattati, poi abbandonati per essere infine ripresi in contesti diversi e
lontani) e per la complessiva disorganicità, anche grafica, della motivazione
sia in fatto che in diritto, se ne segnalano in estrema sintesi i contenuti,
contrapposti al ragionamento del giudice di primo grado.

La Corte palermitana, sembrando prestare formale adesione ai parametri
giurisprudenziali fissati per il reato di concorso esterno in associazione
mafiosa dalle sentenze delle Sezioni Unite 5/10/1994, Demitry e 30/10/2002,
Carnevale, ne ha cosi’ illustrato gli elementi costitutivi: – il dolo del
concorrente è quello generico, dato dalla consapevolezza e volontà
dell’efficienza causale del proprio contributo rispetto al conseguimento degli
scopi dell’associazione, anche soltanto nella forma dell’accettazione del
rischio, non quello specifico che caratterizza la posizione del partecipe; – la
prova da acquisire è quella di ogni singolo contributo apportato dall’agente e
della sua portata agevolativa rispetto agli scopi dell’associazione, non essendo
sufficiente la mera “disponibilità”; – il patto stretto tra esponenti di una
cosca e il politico che si impegni a fornire utilità di tipo
economico-imprenditoriale in cambio di sostegno elettorale appare di per sè
idoneo ad integrare la responsabilità per concorso esterno quando la promessa,
per la caratura e l’affidabilità del promittente, sia in grado di determinare
un immediato salto di qualità nel livello di efficienza dell’organizzazione
criminale, mentre il successivo adempimento degli impegni assunti costituisce
condotta susseguente al reato valutabile sotto il profilo probatorio, e
parimenti indifferente è l’esito delle consultazioni elettorali; il reato di
cui all’art. 416 ter cod. pen., che punisce la promessa di voti in cambio di
somme di denaro, è un reato di pericolo astratto che resta integrato senza che
occorra la prova che il contributo del politico abbia avuto efficacia causale
per il rafforzamento del sodalizio mafioso.

Quindi, movendo dal rilievo critico del metodo seguito dal primo giudice, che
aveva assolto l’imputato per carenza dell’elemento soggettivo circa la
consapevolezza della mafiosità di taluni soggetti con i quali aveva avuto
significativi rapporti o per insufficienza probatoria della rilevanza causale di
talune condotte ai fini del rafforzamento dell’associazione, considerate solo
come espressione di una politica clientelare e corruttiva, il giudice di appello
ha proceduto all’integrale rilettura degli indizi per verificarne l’effettiva
portata con una valutazione sintetica e aggregata. E, all’esito di tale
operazione, condotta anche mediante il ricorso all’analisi storico-sociologica
del fenomeno criminale “per orientarsi nella zona grigia della contiguità
compiacente”, ha ritenuto che ogni singolo episodio, in sè spiegabile come
frutto di malcostume o di attività politico-clientelare, fosse in realtà
sintomatico di un fascio di relazioni di scambio dipendenti da un accordo
“occulto”, comportante l’adesione del Mannino alle finalità dell’associazione
mafios

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