Il “palpeggio” sul posto di lavoro è giustificato motivo di licenziamento – CASSAZIONE CIVILE, Sezione Lavoro, Sentenza n. 9068 del 02/05/2005
Licenziabile
chi pratica la "mano morta" in ufficio. Lo afferma la Sezione Lavoro
della Corte di Cassazione in accoglimento del ricorso di una azienda
manufatturiera del bresciano che si era vista annullare in appello il
licenziamento inflitto ad un operaio reo di avere palpeggiato in più di una
circostanza alcune colleghe di lavoro. Secondo la Suprema Corte, infatti, la
mano morta sul luogo di lavoro (in questo caso, in fabbrica) lede non solo la
libertà individuale e sessuale delle vittime ( e per questo puo’ dare luogo a
responsabilità penale) ma anche l’elemento fiduciario che è alla base del
contratto di lavoro, e per questo giustifica la sanzione massima del licenziamento.
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro,
sentenza n.9068/2005 (Presidente: S. Mattone; Relatore: G. Cellerino)
LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
In seguito alla contestazione di molestie
sessuali nei confronti di un dipendente (tal L.) e del personale femminile
addetto alla tessitura della spa Manifattura di Valle Brembana, il 24 dicembre
1999 la società rinnovava il licenziamento per motivi disciplinari di G. R.,
suo dipendente dal 1976, addetto alle pulizie dei locali dei servizi.
Annullato in primo grado il recesso,
tempestivamente impugnato dal R., la Corte d’appello di Brescia, su appello
della Manifattura, confermava la prima decisione.
La sentenza d’appello, considerato che un
primo recesso era stato annullato il 16 dicembre 1999 per genericità delle
contestazioni e che questo nuovo licenziamento andava circoscritto alle accuse
precedenti, dovendo considerarsi tardivo ogni addebito che faccia riferimento
ad episodi passati e mai contestati, ha ritenuto che le molestie e gli addebiti
di tipo esibizionistico compiuti dal R. non meritassero il provvedimento
adottato, perchè sebbene quelli nei confronti di due lavoratrici, tali G. e
Q., fossero riprovevoli, tuttavia non erano tali da giustificare la sua
espulsione, essendo i restanti genericamente riferiti a non meglio identificate
e ripetute molestie ed esibizioni sessuali, incerte nel tempo e prive di prova,
mentre un plurimo comportamento (l’avere in tre occasioni nella prima metà del
1998 affermato i testicoli dell’operaio E. L.) andava scartato (non puo’ essere
preso in considerazione), perchè non compreso nella prima lettera di
licenziamento e, tra l’altro, tardivo anche rispetto a questa.
In particolare, l’episodio G., che indossando
pantaloni, s’era improvvisamente trovata fra le gambe una canna d’aria
compressa, manovrata dal R., e di esserne stata colpita, senza che il gesto
fosse stato accompagnato da scambi di battute per mancanza di confidenza fra i
due; è apparso alla Corte privo di una chiara connotazione sessuale, anche
sulla base della testimonianza di una teste (tale
C. R.) che, in giudizio, non aveva
ricordato la palpatina riferita dalla dichiarazione predisposta dal caporeparto
e da lei sottoscritta a distanza di un mese dal fatto.
D’altra parte, quello riferibile ala Q. (una
pacca sul sedere ridendo), limitato ad un solo episodio per la genericità di
riferimenti anteriori, è stato ridimensionato dalla sentenza d’appello al fare
scherzoso assunto dal R., secondo la testimonianza del capo reparto Z.
Contro questa decisione la Società ricorre
per cassazione illustrando due motivi.
La parte intimata resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la società denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art.
7 dello Statuto dei lavoratori e dell’art. 3 della legge n. 604/1966 ,
sostenendo che la sentenza d’appello è viziata quanto alla tempestività e
specificità delle plurime contestazioni disciplinari.
In particolare, rileva che erroneamente la
Corte d’appello aveva ritenuto tardiva la contestazione delle molestie sessuali
arrecate dal R. all’operaio L. nella primavera del 1998, afferrandogli i
testicoli in tre occasioni, posto che, riguardando la tempestività della
contestazione un giudizio di relatività temporale, ne era venuta a conoscenza
solo nel maggio del 1999, impedendole, pertanto, di ricomprendere l’addeibito
nel precedente licenziamento, in quanto emerso nel corso di quel giudizio e
subito contestato al suo esito.
D’altra parte, protesta il giudizio di
genericità esposto in sentenza circa gli episodi d’esibizionismo commessi
verso alcune dipendenti dal R., che appositamente lasciatala porta aperta del
bagno, dovendo quel giudizio essere applicato con congruo margine di
discrezionalità, avendo ritenuto di dover tutelare, conformemente a un
protocollo previsto in sede contrattuale, la massima riservatezza della persona
incolpata e delle vittime, in conseguenza dell’indicazione di eccessivi
dettagli.
Mentre questa seconda osservazione è
assolutamente impropria e non merita alcuna indulgenza da parte di questa
Corte, perchè nel bilanciamento tra
il diritto/ dovere al rispetto della risew4rvatezza
e alla tutela di situazioni personali incresciose e quello di difesa,
quest’ultimo non puo’ essere svantaggiato, oltretutto il piano della
trasparenza e della responsabilità delle incolpazione dovendo trovare adeguate
e puntuali verifiche sia sul piano e nel momento contrattuale che in sede
giudiziaria, per contro l’avere la Corte distrettuale escluso
la vicenda L. reputando
questa contestazione inutilizzabile sotto il profilo della tardività, appare
al Collegio, nell’economia del vicenda descritta dalla sentenza, frutto
d’estrama sintesi motivazionale, che rende necessaria una maggiore e più
approfondita definizione sul piano fattuale e motivazionale.
Da un lato, infatti, la denuncia degli episodi
in discorso alla società da parte dell’interessato, intervenuta, in tesi, il 5
maggio 1999 (e quindi dopo il primo licenziamento della fine d’aprile 1999),
non poteva, ratione temporis, essere introdotta dalla Manifattura nel corso
della precedente fase giudiziaria, stante l’ormai intervenuta interruzione, sia
pure allora sub iudice, dal rapporto di lavoro attraverso la comunicazione
dell’atto unilaterale recettizio del primo licenziamento.
D’altro canto, la ricostruzione del rapporto
sancito dall’originaria sentenza d’annullamento, spontaneamente condivisa ed
eseguita dalla società rimetteva in gioco quell’episodio nel più ampio
contesto della valutazione, sotto il profilo disciplinare, dei plurimi
comportamenti del dipendente, ribaditi dalla seconda incolpazione, di cui
l’asserito, dalla sentenza, ritardo della contestazione L. merita un
approfondimento.
Vero è che sembrerebbe (desumendosene una
diversa ricostruzione dal controricorso R.: v. pagg. 4, 5) che tale ripetuto
gesto fosse già conosciuto a livello aziendale sin dal 1998, ma di
quest’esplorazione, come del contenuto del documento di denuncia da parte del
L., che ne costituirebbe la dimostrazione e di cui s’è fatto or ora cenno, non
v’è alcuna rigorosa traccia in sentenza che giustifichi l’opzione prescelta,
limitandosi laconicamente il ragionamento di quella Corte ad escluderne
l’incidenza perchè non compreso nella prima lettera di licenziamento e, tra
l’altro tardivo anche rispetto a questa.
Pertanto, sotto l’assorbente profilo della
tempestività di questa contestazione, questo motivo va accolto, con
conseguente cassazione, in questo limite, della sentenza impugnata che, per
l’effetto, deve essere rimessa ad altro giudice pari ordinato, individuato in
dispositivo, cui va demandata, oltre una sua valutazione in termini di
rilevanza disciplinare, l’analisi congiunta, ai fini della legittimità del
recesso, con gli altri due episodi, la cui svalutazione da parte della Corte
territoriale è stata denunciata con il secondo motivo.
Circa questo secondo mezzo d’impugnazione,
incentrato sugli episodi G. e Q., ricordati in narrativa, a suo tempo, secondo
la Corte territoriale, tempestivamente e specificamente contestati, si ipotizza
la violazione e falsa applicazione dell’art. 12, preleggi; 3, L. n. 604/1966; 2087, 2106
e 2697, cod. civ., e dell’art. 115, cod. proc. civ., oltre difetti di
motivazione, anche in considerazione della Raccomandazione del 27 novembre 1991
della Commissione europea in tema di dignità dei lavoratori nei luoghi di
lavoro, per salvaguardarne l’intimità personale in caso di comportamenti
indesiderati, sconvenienti od offensivi.
Si sostiene che il Giudice d’appello avrebbe
fatto malgoverno delle norme poste a tutela della libertà sessuale,
finalizzate a reprimere le molestie arrecate nei luoghi di lavoro, reputando
eccessiva la sanzione, senza tener conto adeguato dei principi giuridici e dei
giudizi di valore, alla stregua dei quali deve essere considerata la gravità
delle trasgressioni del lavoratore, richiamando a tal fine alcune sentenze di
questa Corte (nn. 5049/2000; 10752/1996; 7768/95).
In particolare, la Società, quanto
all’episodio G., ne critica la svalutazione, stante il turbamento della donna
che sarebbe stato colto da alcuni compagni di lavoro e afferma il significato
sessuale dell’episodio, essendo errato, anche in diritto, lo scarso peso
assegnato alla vicenda, argomentato sulla base dell’impressione di una teste
(tal R.), che aveva considerato (indebitamente) scherzoso l’atteggiamento del
R.
Parimenti, quanto alla denuncia del 29 aprile
1999 dalla dipendente Q., la Società si duole che il Giudice abbia limitato la
valutazione a un solo episodio e ribadisce che il giudizio scherzoso, dato in
proposito da una teste (Zanchi, capo reparto) ricordando la frase del R.: ha
ancora un bel sedere, non poteva formare oggetto di testimonianza.
A fronte di tali rilievi in relazione a questi
due episodi, questa Corte osserva che l’analisi, in tesi riduttiva, esplicitata
dalla sentenza impugnata in funzione di un’equilibrata valutazione della
proporzionalità della reazione disciplinare, è, per contro, frutto d’una
ponderata e scrupolosa valutazione degli episodi, pur discutibili e censurabili
sul piano delle relazioni interpersonali fra compagni di lavoro, soprattutto se
intercorrenti tra soggetti di sesso diverso, che appartiene al libero
convincimento del Giudice di merito che il Collegio intende salvaguardare,
apparendo immune da vizi c