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Poca trasparenza nelle tariffe forensi, di Daniela Marchesi

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M entre le
aziende italiane devono competere in mercati aperti e aggressivi, i servizi, che
costituiscono input importanti ( secondo l’Autorità Antitrust pesano da un 6 a
un 8% dei costi complessivi di produzione), vengono acquistati su mercati che
hanno ancora forti rigidità circa prezzi e quantità offerte.
Ai fini di una maggiore competitività delle imprese e di una migliore
efficienza del sistema economico due sono gli obiettivi che un riforma degli
Ordini professionali dovrebbe perseguire: introdurre meccanismi che consentano
ai prezzi dei servizi di essere rivelatori della qualità di quanto offerto e
incentivare la modernizzazione di queste attività. Modernizzazione che è resa
quanto mai urgente anche perchè i professionisti italiani possano fronteggiare
nel prossimo futuro la concorrenza che verrà da altri Paesi: oltre alle molte
direttive europee in materia che si stanno susseguendo da tempo, la Commissione
Ue ha in questi giorni sottoposto al Wto una proposta di apertura del mercato
dei servizi che consentirà ad avvocati, contabili, architetti e ingegneri dei
Paesi terzi di esercitare liberamente la professione nei Paesi europei.
Invece nella tormentata vicenda italiana della riforma degli Ordini, questi due
punti vengono solo occasionalmente toccati, mai realmente affrontati. Il caso
dei servizi legali in materia civile e commerciale è particolarmente
esemplificativo. La formula di determinazione dell’onorario degli avvocati è
ancora oggi regolata, nella sua essenza, da un regio decreto del 1933 e prevede
che la parcella del difensore sia legata strettamente al numero di attività
svolte nell’ambito del processo. Una sorta di compenso a cottimo che fa
corrispondere a ogni atto dell’avvocato una somma: per un dato valore della
causa, tanto più è elevato il numero di attività svolte tanto più è alta la
parcella.
Questo sistema produce non poche distorsioni: tanto più l’avvocato è abile e
riesce a ridurre al minimo le procedure per risolvere la contesa, tanto meno
viene pagato. Dunque, si tratta di un incentivo a complicare invece che a
semplificare.
Non è tutto: poichè l’onorario dipende da quanto il processo si complicherà,
all’avvocato non è possibile fornire un preventivo di spesa al cliente. Cio’
comporta che il cliente non puo’ stabilire se gli conviene economicamente o meno
affrontare la causa, nè confrontare preventivi alternativi di diversi
professionisti per scegliere a chi rivolgersi.
Diverso sarebbe se si sostituisse l’attuale formula con un compenso a forfait,
un modello adottato in Germania. E a maggior ragione, se il livello del compenso
non fosse regolamentato, ma completamente libero. Il cliente potrebbe disporre
di un preventivo, potrebbe capire se la causa gli conviene economicamente oppure
no, e, se si’, potrebbe scegliere tra le offerte di diversi professionisti.
L’avvocato potrebbe scegliere strategie poco complicate e più veloci senza che
l’onorario ne sia compromesso. I prezzi diventerebbero segnali di qualità.
Tuttavia di un proposta del genere non v’è traccia in nessuno dei molti
progetti di riforma.
Certo, il passaggio dall’attuale formula a una a forfait ridurrebbe ampiamente i
margini di guadagno degli avvocati legati all’attività processuale civile: per
le cause di basso valore ( ossia per circa il 60% delle controversie di
contenuto economico), il costo dell’assistenza legale è in genere pari, o
addirittura superiore, al valore della causa.
In questo nuovo scenario sarebbero molti i soggetti che di fronte al preventivo
rinuncerebbero ad andare in tribunale, oppure le parcelle dovrebbero ridursi.
Cio’ costituirebbe, pero’, anche una spinta verso la modernizzazione perchè
incentiverebbe gli avvocati a occuparsi maggiormente delle attività di
consulenza alle imprese che la recente riforma del diritto societario ha reso
indispensabili. La riforma ha infatti aperto nuove opportunità professionali
legate alla stesura degli statuti che sono stati liberalizzati per le società a
responsabilità limitata, ossia per l’ampio novero delle piccole e medie
imprese. Vi è, in questo ambito, anche un altro elemento che puo’ concorrere a
incentivare la modernizzazione del mercato dei servizi legali: l’avere dal 2000
trasferito dai tribunali ai notai l’omologa degli statuti. La combinazione di
questi due eventi normativi ” liberalizzazione degli statuti e passaggio di
competenze per le omologhe ” ha reso necessario per le imprese anche molto
piccole un rapporto continuativo con avvocati e notai, che si aggiunge a quello
che già esisteva con i commercialisti.
Il nostro mercato ha bisogno di studi che offrano alle imprese pacchetti
completi di servizi che richiedono la professionalità integrata di queste tre
categorie. Rilevanti risultati in termini di competitività si potrebbero dunque
ottenere da un lato modificando la formula di determinazione degli onorari degli
avvocati, dall’altro favorendo la costituzione di società di professionisti che
offrano questi servizi.
In questa prospettiva sarebbe anche opportuno ridurre l’ambito di esclusiva dei
notai alle sole omologhe. Oltre a eliminare dannose rendite, si indurrebbe i
notai a specializzarsi nella materie societarie che per difficoltà e
delicatezza necessitano effettivamente di servizi professionali particolarmente
qualificati.
E’ importante introdurre queste riforme presto perchè se non saranno gli studi
italiani ad occupare questi spazi, che promettono ampie prospettive di guadagno,
lo faranno quelli stranieri, in particolare quelli inglesi e americani sempre
più numerosi in Italia e che hanno già ampia esperienza in materia
commerciale.  Daniela Marchesi, Il Sole 24 Ore

www.ilsole24ore.com

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