Processo del lavoro: nuove prove in appello solo se “neonate” – Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 8202 del 20/04/2005
Contrasto risolto in chiave
restrittiva: produzione vietata in secondo grado a meno che non siano già stati
quantomeno indicati nel primo giudizio. Fanno eccezione i documenti formati dopo
il ricorso e la memoria di costituzione
Rito del lavoro: vietata in appello la produzione di nuovi documenti. Per essere
ammissibili è necessario che siano già stati indicati nel ricorso introduttivo
del giudizio di primo grado. A meno che la produzione non sia giustificata dal
tempo della loro formazione o dell’evolversi della vicenda processuale.
Questo il principio affermato dalle Sezioni unite civili nella sentenza 8202/05
– depositata il 20 aprile – con la quale gli "ermellini" hanno messo la parola
fine ad un contrasto esistente non solo in giurisprudenza ma anche in dottrina.
Da più parti, infatti, si avvertiva l’esigenza di individuare, nel rito del
lavoro, un comune denominatore in fatto di prove. Una regola, cioè, che
accomunasse prove documentali e prove costituende (ad esempio la testimonianza).
Con la pronuncia in esame tutte le prove sono state poste sullo stesso piano e
le limitazioni che operano per le une valgono anche per le altre. In particolare
lo sbarramento imposto dall’articolo 437 del Codice di procedura civile (Udienza
di discussione), secondo cui in appello "non sono ammessi nuovi mezzi di prova",
è stato esteso anche ai documenti, in quanto, ad avviso del Collegio, mezzi di
prova a tutti gli effetti.
Il contrasto. Due gli orientamenti formatisi nel tempo sulla questione: il
primo, quello più elastico, prende le mosse da una sentenza delle Sezioni unite
del 1990, la n. 9199, secondo cui pur non operando per le prove documentali il
divieto imposto dall’articolo 437 Cpc e quindi il divieto di produrre nuovi
mezzi di prova per la prima volta in appello, era necessario, a pena di
decadenza, che i documenti fossero indicati nel gravame. Questa decisione è
stata confermata da numerose altre succedutesi nel tempo. Altre ancora hanno
mostrato un’apertura maggiore, dando ingresso alla produzione dei documenti fino
all’udienza di discussione (anche in appello) anche in assenza di qualsiasi
indicazione nel ricorso. Tali decisioni si fondavano su un assunto, diffuso in
dottrina, secondo cui le prove costituende e quelle costituite sono soggette a
regole diverse.
Contro quest’indirizzo, per cosi’ dire flessibile, se ne è formato uno più
restrittivo fondato sul principio secondo cui "il potere del giudice di appello
di ammettere nuovi documenti trova un limite nel carattere veramente nuovo che
la documentazione offerta in sede di impugnazione deve avere, sicchè il
documento che poteva essere indicato nel ricorso introduttivo del giudizio di
primo grado non puo’ più essere prodotto in appello". In altre parole se la
prova documentale non è indicata subito, non potrà più essere ammessa al
processo, neppure in appello. E in questo senso si è espressa anche una
recentissima pronuncia della sezione lavoro che ha escluso "la possibilità di
differenziare ai fini preclusivi prove costituite e prove costituende da cio’
facendo scaturire l’inclusione dei documenti nei nuovi mezzi di prova, con
conseguente applicabilità anche per la produzione documentale della disciplina
limitativa delle prove in appello" (vedi negli arretrati del 3 marzo 2005).
La soluzione. Il Massimo consesso ha aderito al secondo filone
giurisprudenziale, quello più restrittivo, enunciando un ben preciso principio
di diritto :"l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo
grado, dei documenti e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale
atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi,
salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o
dell’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla
memoria di costituzione". Per dirimere il contrasto i giudici di legittimità
hanno richiamato il principio ormai "universale" della ragionevole durata del
processo che non puo’ essere compromessa, a maggior ragione nel rito del lavoro,
ispirato com’è, a esigenze di economia processuale. Senza compromettere,
tuttavia, il diritto di difesa delle parti "e la ricerca della verità
materiale".