Il detenuto depresso può ottenere gli arresti domiciliari -; CASSAZIONE PENALE, Sezione V, Sentenza n. 35741 del 31/08/2004
La depressione puo’ essere ”giustificato” motivo per fare aprire le porte
del carcere. Lo ha sancito la Corte di Cassazione che ha accolto il ricorso di
un detenuto che chiedeva le misure alternative alla detenzione in carcere a
causa della forte ”depressionè’ determinata dalla reclusione nell’istituto
penitenziario. Per la Suprema Corte, ”la sindrome ansioso-depressiva puo’
costituire causa di differimento della pena quando assuma aspetti di tale
gravità da non essere fronteggiabile in ambiente carcerario”. Di diverso
avviso il Tribunale di sorveglianza di Torino che, nel marzo scorso, aveva
negato i domiciliari ad Antonio F., rilevando che ”la sindrome depressiva, pure
di significativa gravità, non era in grado di porre in pericolo di vita il
detenuto” e che ”ai sensi dell’art. 147 comma 1 n. 2 c.p. non sussisteva
nessuna delle due condizioni che consentivano il differimento dell’esecuzione
della pena (prognosi infausta per la vita o cure che non possono essere
praticate in carcere)”. Contro il no agli arresti domiciliari, il detenuto ha
presentato ricorso in Cassazione evidenziando come la ”forte depressionè’ gli
avesse provocato anche un calo di peso ”oltre trenta chili”. La Quinta sezione
penale (sentenza 35741/04) ha accolto il ricorso del detenuto, sottolinenando
che ”la sindrome ansioso-depressiva puo’ costituire causa di differimento di
pena quando assuma aspetti di tale gravità da non essere fronteggiabili in
ambiente carcerario”. Sarà ora il Tribunale di sorveglianza torinese a
rivalutare il caso, considerando se la ”depressionè’ del detenuto sia tale da
fare si’ che ”l’espiazione della pena appaia contraria al senso di umanità per
le eccessive sofferenze da essa derivanti”.
CASSAZIONE PENALE, Sezione V, Sentenza n.
35741 del 31/08/2004
LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE FERIALE
SENTENZA
FATTO E DIRITTO
Il Tribunale di sorveglianza di
Torino esaminava in primo luogo la richiesta del F. volta al riconoscimento
dello status di collaboratore di giustizia ai fini dell’ottenimento della
detenzione domiciliare, consentita ai sensi dell’art.
58 ter O.P. [1] anche per i condannati per reati ostativi ai sensi dell’art.
4- bis O.P.
Rilevava che le informazioni
acquisite consentivano di escludere che il F. avesse compiuto un’attività di
collaborazione o che si trovasse nella particolare situazione di non aver potuto
collaborare per aver avuto una minima partecipazione nella struttura associativa
e che pertanto l’istanza conseguente di detenzione domiciliare doveva essere
dichiarata inammissibile.
Passava quindi ad esaminare la
richiesta di differimento pena e concessione della detenzione domiciliare ai
sensi dell’art. 47 ter comma 1 ter, cioè in caso dell’esistenza di gravi
ragioni di salute, e rilevava che il F. risultava affetto da una condizione
depressiva di carattere reattivo alla detenzione, con una ricaduta sul piano
fisico costituita da un importante calo ponderale, pari a oltre trenta chili.
Sollevava perplessità sul fatto
che mentre una relazione clinica del 14/2/2004 rilevava che il detenuto era in
cura con antidepressivi e che le condizioni generali erano compatibili con il
regime detentivo, una seconda relazione medica del 5/3/2004, ad una distanza di
soli venti giorni, concludeva in senso del tutto difforme, affermando che la
prosecuzione del regime detentivo poteva aggravare ulteriormente le condizioni
di salute.
La Corte territoriale rilevava
ancora che la sindrome ansioso- depressiva, pur di significativa gravità, non
era in grado di porre in pericolo di vita il detenuto e quindi ai sensi
dell’art. 147 comma 1 n. 2 c.p. non sussisteva nessuna delle due condizioni
(prognosi infausta quad vitam o cure che non possono essere praticate in
carcere) che consentivano il differimento nell’esecuzione della pena.
Aggiungeva poi che anche
valutando il fatto alla luce del rispetto del principio di umanità della pena e
della necessità di evitare una sua abnorme afflittività, nel caso di specie il
detenuto era in grado di partecipare al programma rieducativo della pena e di
compiere i normali atti della vita quotidiana.
Contro la decisione presentava
ricorso il condannato deducendo violazione di legge in relazione all’omesso
riconoscimento dello status di collaboratore di giustizia ed al conseguente
diritto ad accedere alle misure alternative alla detenzione, anche in presenza
di titoli di reato ostativi, in quanto il Tribunale avrebbe omesso di
considerare che la collaborazione vi era stata e che se non aveva potuto
collaborare e che se non aveva potuto collaborare ulteriormente cio’ era dovuto
alla sua minore partecipazione ai fatti.
Deduceva ancora che per le sue
condizioni di salute, eccezionalmente gravi, aveva comunque diritto al
differimento della pena, prevista dagli artt. 147 e 148 c.p. in relazione
all’art. 47 ter comma 1 ter O.P.
Con memoria presentata
successivamente produceva documentazione medica consistente in pareri sulle
condizioni di salute e sulla incompatibilità col regime carcerario.
La Corte rileva che il primo
motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto la valutazione operata dal
Tribunale sull’impossibilità di riconoscere lo status di collaborante appare
conforme a legge ed agli accertamenti compiuti.
Deve sottolinearsi infatti che
la giurisprudenza di legittimità ha sempre affermato che la qualità di
collaboratore a norma dell’art. 58 ter O.P. non puo’ formare oggetto di una
pronuncia dichiarativa fine a se stessa, mirante al preventivo riconoscimento
dello status, ma deve essere accertata all’interno del procedimento di merito
attivato dalla richiesta di uno dei benefici penitenziari (Sez. I 19 aprile 1999
n. 1865 ric. Sparta, rv. 213066, Sez. I 18 gennaio 1998 n. 5885, ric. Piras, rv.
212201) e nel caso di specie questo accertamento è stato correttamente compiuto
ed ha condotto alla conclusione che il condannato non ha mai collaborato e non
si trovava nelle condizioni di inesigibilità della collaborazione per cui nei
suoi confronti opera il divieto di ammissione alla detenzione domiciliare
previsto per i reati contemplati all’art. 4- bis O.P.
Il secondo motivo di ricorso
volto ad ottenere la detenzione domiciliare in alternativa al differimento della
pena per gravi motivi di salute merita accoglimento, con annullamento con
rinvio.
Deve ribadirsi l’orientamento
già espresso dalla Suprema Corte in merito alla nozione di grave infermità
fisica, secondo cui non è tra esse annoverabile la debilitazione conseguente ad
esempio ad anoressia (Sez. I 21 agosto 1997 n. 4574, ric. Partico’, rv. 208423),
ma deve anche ricordarsi che la sindrome ansioso- depressiva puo’ costituire
causa di differimento della pena quando assuma aspetti di tale gravità da non
essere fronteggiabili in ambiente carcerario o addirittura assuma i caratteri
della infermità psichica sopravvenuta (Sez. I 10 dicembre 1996 n. 5282, ric.
Ciancimino, rv. 206329).
La motivazione della sentenza
sul punto appare contraddittoria laddove da un lato si ritiene non credibile un
aggravamento delle condizioni in soli venti giorni e dall’altro si ritiene a tal
punto grave la situazione da richiedere un controllo assiduo da parte della
struttura carceraria.
Premesso che non è conforme
alla più recente giurisprudenza di legittimità richiedere per il differimento
della pena il requisito della prognosi infausta quoad vitam (vedasi per tutte
Sez. I 15 novembre 1999 n. 5715, ric. Di Girolamo, rv. 214419), dovendosi invece
valutare se le condizioni di salute, ritenute gravi, facciano si’ che
l’espiazione della pena appaia contraria al senso di umanità per le eccessive
sofferenze da essa derivanti, deve nel caso di specie valutarsi se la perdita di
peso di oltre trenta chili, in un soggetto che partiva da un peso di 111 kg,
costituisca sintomo o conseguenza di un grave stato di malattia ai sensi ed ai
fini degli artt. 147 (o 148) c.p..
PQM
La Corte annulla l’ordinanza impugnata e rinvia
per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Torino.
Depositata in Cancelleria il 31 agosto 2004.