Il giudice che ritarda senza
giustificazione il deposito di provvedimenti puo’ essere sottoposto a
procedimento disciplinare. Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione
hanno confermato la sanzione dell’ammonimento inflitta dalla Sezione
Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ad un giudice del
Tribunale di Roma che aveva depositato un gran numero di sentenze con
notevoli ritardi non giustificati. Secondo le Sezioni Unite, infatti, "nel
caso in cui il magistrato sia incorso in ritardi nel deposito di
provvedimenti che siano tali, per consistenza e numero, da superare i limiti
della ragionevolezza e giustificabilità, la lesione stessa è in re ipsa,
senza necessità di accertamento in ordine al concreto verificarsi della
perdita di credibilità della funzione".
CASSAZIONE CIVILE, Sezioni Unite, Sentenza n.20133 del 12/10/2004
SVOLGIMENTO DEL
PROCESSO
A seguito di note in data 7 aprile 2000 del
Presidente del Tribunale di Roma e 24 maggio 2000 e 14 dicembre 2001 del
presidente della Corte di appello della stessa sede, il 30 novembre 2000 ed
il 5 marzo 2002 il Pg presso la Corte di Cassazione promosse l’azione
disciplinare nei confronti del dott. (…), addebitandogli di aver
depositato numerose sentenze, da lui estese quale giudice di detto Tribunale
e, poi, come consigliere della Corte di merito pure menzionata, con notevoli
ritardi e con conseguente compromissione del prestigio della funzione
giudiziaria.
L’incolpato si giustifico’ affermando di avere
assunto un ruolo di cause particolarmente complesso, di essere stato addetto
sia alla seconda sezione civile che alla sezione famiglia, e di aver vissuto
un periodo di grave disagio familiare sia per la necessità di occuparsi di
due figli gemelli in assenza della moglie, preside a Rieti, sia per le gravi
condizioni di salute della madre residente a Lecce e deceduta il 13
settembre 2001.
Con sentenza del 23 maggio 2003, depositata il
2 febbraio 2004, la Sezione disciplinare del C.s.m., previa riunione dei due
procedimenti, ha dichiarato non doversi procedere per l’omesso deposito
delle sentenze del Tribunale di Roma per precedente giudicato, ha ritenuto
il dott. (…) responsabile delle altre incolpazioni ascrittegli e gli ha
inflitto la sanzione disciplinare dell’ammonimento.
Per quanto ancora interessa il giudice
disciplinare ha affermato che i ritardi contestati per il periodo di
servizio prestato presso la Corte di appello tra la fine del 1999 ed il
luglio 2002 erano certamente imputabili a mancanza di diligenza e
laboriosità, ed ha escluso che ricorressero cause di giustificazione.
Tali ritardi erano di notevole entità e pari,
per l’anno 1999, a non meno di undici mesi dalla data della riserva in
decisione e, per il resto, non inferiori a 200 giorni e fino ad un massimo
di 480 giorni.
Non era provata una particolare gravosità dei
ruoli, e solo nel 1999 il dott. (…) aveva svolto funzioni presso la
sezione per i minorenni e la famiglia, oltre che presso la seconda sezione
civile; negli anni 1999 e 2000, comparativamente con gli altri consiglieri
la sua produttività era stata di gran lunga la più bassa, mentre negli
anni 2001 e 2002 l’incolpato si era collocato rispettivamente al penultimo e
terzultimo posto di una graduatoria decrescente.
Le sue condizioni di salute non incidevano
sulla capacità di lavoro; non era provato che quelle, gravi, della madre
avessero, fin quando ella era rimasta in vita, reso necessario un impegno
assistenziale del figlio incompatibile con un’adeguata dedizione ai doveri
d’ufficio. Lo svolgimento delle funzioni genitoriali, pur nella situazione
prospettata, non poteva giustificare i contestati ritardi.
La sentenza assolutoria del 13 ottobre 2000 non
poteva comportare effetti, favorevoli all’incolpato, relativamente agli
addebiti non coperti dal giudicato essendo essa relativa a diverso arco
temporale ed avendo essa apprezzato cause di giustificazione contingenti e
ben delimitate nel tempo
Per la cassazione di tale decisione il dott.
(…) ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi. Gli intimati non hanno
svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA
DECISIONE
1. Con il primo motivo del ricorso
il ricorrente, nel dedurre con riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.
la violazione e falsa applicazione degli artt. 18 e ss.
R.D. 511/1946 [1]
nonchè vizi di motivazione su punto decisivo, afferma che la richiesta di
proscioglimento dell’incolpato, avanzata dal procuratore generale dinanzi
alla sezione disciplinare, ha comportato rinuncia alla relativa azione,
richiama al riguardo il carattere facoltativo dell’azione stessa (art. 107,
comma 2, Cost.) in contrapposizione con quello, invece obbligatorio,
dell’azione penale (art. 108: recte, 112 Cost.), sostiene la natura lato
sensu civilistica dell’azione disciplinare, in quanto attinente al rapporto
di impiego del magistrato, ed addebita alla sentenza impugnata di aver del
tutto omesso di esaminare le argomentazioni svolte dallo stesso Pg a
sostegno della richiesta in questione.
Le censure sono infondate.
Premesso che, come lo stesso ricorrente
puntualmente osserva, il carattere irretrattabile dell’azione disciplinare
è stato più volte affermato da queste Sezioni unite (v. tra le altre, le
sentenze 1994/2003 e 338/1999), non ritiene la Corte che gli argomenti
addotti a sostegno della opposta tesi possano consentire di discostarsi da
tale indirizzo interpretativo come invece il ricorrente pretende.
Invero l’art. 34, ultimo comma, r.d. 511/1946
dispone che, nella fase dibattimentale del giudizio disciplinare nei
confronti di magistrati, si osservano, in quanto compatibili con la natura
del procedimento e con le disposizioni dello stesso decreto, le norme dei
dibattimenti penali: orbene nè tali norme, nè le disposizioni speciali del
decreto annettono alla richiesta di proscioglimento in questione valore di
rinuncia all’azione.
Al contrario il comma 2 dell’art. 33 stesso
decreto 511/1946 stabilisce che il giudice disciplinare dichiara non farsi
luogo a rinvio al dibattimento solo se su conforme richiesta del Pm ritenga
che dalle prove restino esclusi gli addebiti.
Se, dunque, per espressa disposizione di legge
non equivale a rinuncia la richiesta di non luogo a rinvio al dibattimento,
avanzata dal Pm all’esito della fase istruttoria, dovendo essa trovare
l’assenso anche del giudice, a maggior ragione non puo’ produrre tale
effetto la richiesta di proscioglimento avanzata dalla stessa parte
all’esito della successiva fase dibattimentale.
La norma speciale è del tutto coerente con le
disposizioni processuali penali che non prevedono la rinuncia all’azione,
nè la incompatibilità, dedotta dal ricorrente, puo’ scaturire dal
carattere facoltativo dell’esercizio dell’azione disciplinare.
Se, invero, per norma costituzionale (il citato
art. 107) è rimesso al potere discrezionale del titolare di tale azione
l’esercizio o meno di essa, deve escludersi, dopo l’inizio del procedimento,
che lo stesso soggetto possa disporne.
Il potere dispositivo viene invero in rilievo
nel processo civile, nel quale sono in gioco interessi meramente
privatistici, mentre nel processo disciplinare rileva l’interesse pubblico,
non disponibile da parte del titolare dell’azione dopo che essa è stata
esercitata, al corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali La pretesa,
dunque, del ricorrente, volta ad assimilare azione disciplinare ed azione
civile, è priva di ogni fondamento.
La censura di vizio motivazionale è invece
inammissibile: il ricorrente, invero, non afferma che, a sostegno della
richiesta in esame, il Pg d’udienza abbia svolto argomentazioni diverse da
quelle addotte dalla difesa e confutate dalla sentenza impugnata nè, in
osservanza dell’onere di autosufficienza del ricorso, le ha comunque in esso
riprodotte al fine di porre la Corte in grado di valutarne rilevanza e
decisività.
2. Con il secondo motivo il ricorrente afferma
che la sentenza impugnata è stata emessa dalla sezione disciplinare in data
23 maggio 2003, oltre il termine biennale posto dall’art. 59 d.P.R.
916/1958, modificato dall’art. 12 l. 1/1981, e che fa decorrere dall’11
dicembre 2000, data di inizio del procedimento "attraverso la informativa di
cui all’art. 59 citato": del quale, pertanto, denuncia la violazione.
La censura è infondata.
Il comma 9 di detto art. 59, come sopra
modificato, dopo aver disposto che entro un anno dall’inizio del
procedimento deve essere comunicato all’incolpato il decreto che fissa la
discussione orale davanti alla sezione disciplinare stabilisce
ulteriormente, ed è la parte che qui interessa, che "nei due anni
successivi dalla predetta comunicazione deve essere pronunciata la sentenza.
Quando i termini non sono osservati, il procedimento disciplinare si
estingue, sempre che l’incolpato vi consenta".
Nella specie è dunque la comunicazione del
predetto decreto (e non già, come invece pretende il ricorrente l’inizio
del procedimento, che invece rileva agli effetti della decorrenza del
diverso termine annuale di cui alla prima parte dello stesso art. 59,
diverso termine che non forma pero’ oggetto di ricorso e sul quale v., da
ultimo, Cassazione 1418/2004 e 800/2002) che segna il dies a quo del termine
in questione. Detta comunicazione risulta avvenuta, per i due procedimenti
disciplinari, poi riuniti, rispettivamente il 20 novembre 2001 ed il 9
ottobre 2002, talchè, mentre deve escludersi la rilevanza della diversa e
precedente data indicata dal ricorrente 11 dicembre 2000 la sentenza risulta
tempestivamente emessa il 23 maggio 2003.
Correttamente, invece, lo stesso ricorrente
indica in quest’ultima data il dies ad quem del termine, senza attribuire
rilievo alcuno a quella ben successiva (2 febbraio 2004) del deposito in
segreteria della decisione.
Deve infatti ribadirsi che detto termine va
identificato nella lettura del dispositivo giacchè il procedimento
disciplinare si modella su quello penale (Cassazione 12173/1990: decisione
che non puo’ ritenersi superata, nonostante la non del tutto propria
formulazione della relativa massima, dalla successiva sentenza 857/1999 di
queste Sezioni unite riferendosi questa ad altra fattispecie, nella quale,
come precisato nella relativa motivazione, non era stato dedotto che il
termine in questione non fosse stato osservato).
La sezione disciplinare non era pertanto tenuta
a motivare, diversamente da quanto anche preteso dal ricorrente, su una
causa estintiva non verificatasi.
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