Attualità

Caso Cogne, la galera e i poveracci (di Adriano Sofri)


Di Adriano Sofri


 

Chi
s’indigna per la mamma rimasta in libertà sbaglia. Non è contro il carcere
rinviato che dovrebbe protestare, ma contro quello che si chiude ineluttabile
sopra miriadi di disgraziati.



 
Non direi una parola sulle responsabilità per la tragedia di Cogne. Non
giudicare è un precetto fondamentale, ed è anche un privilegio del quale non
farei a meno. Non invidio chi, per professione o per vocazione, giudica. Quella
tragedia è stata giudicata, in prima istanza, e la signora Annamaria Franzoni
è stata condannata. Mi importa la decisione della procura competente di non
dare esecuzione alla condanna, in attesa dei gradi ulteriori. Mi importa e, dico
subito, mi fa piacere, qualunque sia la motivazione reale della decisione. La
motivazione dichiarata è nota: prima della sentenza definitiva, non esiste
pericolo di fuga, nè di inquinamento delle prove, e la signora Franzoni non è
socialmente pericolosa. Il codice consente queste valutazioni, benchè siano
raramente seguite.
Puo’ darsi che sulla procura abbia avuto parte il
desiderio di smentire il sospetto, quando non l’accusa esplicita, di un partito
preso nei confronti dell’imputata, o anche di rinviare un provvedimento
impopolare, di fronte a una madre di bambini piccoli. Si è visto bensi’ che la
decisione ha sollevato anche le reazioni opposte, di persone indignate che la
condannata non sia subito finita in galera: indignazione forse sincera in
qualche caso, ma più probabilmente suscitata da quel piacere intimo che si
prova alla disgrazia e alla galera altrui.

I magistrati che hanno deciso di non dare per ora esecuzione alla condanna hanno
dovuto, immagino, affrontare l’unico rovello capace di far tremare le vene,
cioè la domanda se una condannata per l’uccisione furiosa del suo bambino non
potesse ripetere quella furia. Devono essersi detti di no, con convinzione,
perchè da una persona, e quel che più conta da una madre, dichiarata
pienamente capace di intendere e di volere, non ci si puo’ aspettare un delitto
cosi’ folle. C’è qui una contraddizione insolubile di questo come di altri
tragici eventi delittuosi: perchè perizie e pronunciamenti psichiatrici vengono
a dire a posteriori se siano folli o normali atti che, per definizione, eccedono
ogni possibile normalità. Se cedere al furore fino a straziare e uccidere la
propria creatura non basta a definire la follia, vuol dire che una strana
inversione fra la cosa e il suo nome ha vinto sulle nostre intelligenze.

Per una coincidenza, a pochi giorni dalla sentenza di Aosta è venuto ” un
trafiletto appena su qualche quotidiano ” il provvedimento del tribunale di
sorveglianza di Milano che ha messo in libertà vigilata, dalla clinica in cui
era curata dopo essere stata assolta per totale vizio di mente, la giovane madre
che aveva, ricordate?, chiuso la sua bambina di otto mesi nella lavatrice, e
uccisa. Decisione anche qui «sconcertante», che è l’aggettivo al quale riparano
la viltà e la paura, ma piuttosto penosamente ovvia: perchè il gesto di una
madre che butta coi panni sporchi la sua creatura nella centrifuga di cucina non
ha bisogno d’essere certificato pazzesco da periti. Se non fosse pazzia quella,
che cosa potrebbe più esserlo? Per quanto abbia frugato nei giornali, non ho
trovato cenno del vero problema posto dalla sentenza di Aosta, per il caso che
venisse confermata nei gradi successivi, anche attenuata nella durata della
pena. Il vero problema è che, dilazionata per qualche tempo ” qualche anno,
magari, fra appello e Cassazione e chissà quali imprevisti ” la galera per la
signora Franzoni diventerebbe ineluttabile. Cosi’ questa vicenda, d’eccezione
per il dolore che ha evocato e per la risonanza spettacolosa e impudica, solleva
una questione notissima agli esperti e ignoratissima, fino alla rimozione, da
tutti gli altri, cioè la questione della pena. La giustizia ha perfino
dimenticato, per distrazione e per abitudine, di distinguere fra la condanna e
la pena, e fra la pena e la galera. La giustizia ha scelto, non so più da
quando, di chiamarsi «penale», testimoniando cosi’, a chi volesse ancora
interrogarsi, di mirare soprattutto alla pena: e le nostre culture non hanno
saputo liberarsi dall’identificazione fra pena e reclusione dei corpi.

Ecco che un evento tragico come quello di Cogne mostra, quasi senza volere,
la pigra assurdità di questa cultura. Perchè se la signora Franzoni fosse
innocente
” mai bisogna escluderne la possibilità, e non certo per effetto
di una sentenza giudiziaria ” la sola idea di incarcerarla suona atroce e
raccapricciante.
Se fosse colpevole ” piuttosto, se fosse l’autrice
dell’uccisione del suo piccolo ” la galera, per lunga e dura che fosse, non
potrebbe rivaleggiare neanche da lontano con la pena che lei e i suoi provano e
scontano dentro di sè, dal momento stesso di quella sventura. E allora,
perchè la si chiuderebbe in una galera?
C’è qualcuno che pensa che la sua
galera serva a far da deterrente all’emulazione del suo delitto? C’è una paura
del carcere che valga a trattenere una madre dalla furia omicida rivolta contro
la propria creatura?
Ho sentito qualche commento amaro alla galera scampata ” provvisoriamente ”
della signora Franzoni,
paragonata alla galera che ingoia senza scampo
miriadi di poveri disgraziati da quattro soldi. Lo capisco, ma è un
equivoco, uno sbaglio.
Non contro la galera rinviata di una persona di cui
si è tanto parlato bisogna indignarsi e protestare, ma contro la galera che si
chiude ineluttabile sopra le miriadi di disgraziati. L’altro giorno un servizio
di Marco Imarisio sul Corriere si concludeva con l’opinione di un
magistrato del ministero di Giustizia, incaricato dei problemi penitenziari: «In
Italia la funzione penale viene esercitata a tappeto. E i benefici di legge non
funzionano per i poveracci, le nostre carceri sono piene di gente povera, che
sconta reati banali». Lo dice lui. Io non ho più neanche voglia di dirlo.


 

Fonte:


http://www.panorama.it/opinioni/archivio/articolo/ix1-A020001026119


 

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