Responsabilità civile: L’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto ipso facto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri
Le obbligazioni inerenti
l’esercizio di una attività professionale sono, di regola, obbligazioni di
mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si
impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato
considerato, ma non al suo conseguimento. Deriva, da quanto precede, pertanto,
che l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non puo’ essere
desunto ipso facto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira
dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo
svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di
diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio della
diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale,
fissato dall’articolo 1176, comma 2, del c.c., parametro da commisurarsi alla
natura dell’attività esercitata. In tanto, pertanto, il danno derivante da
eventuali omissioni del professionista è ravvisabile in quanto, sulla base di
criteri probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione il risultato
sarebbe stato conseguito, secondo un’indagine riservata al giudice del merito e
non censurabile in sede di legittimità.
Cassazione Civile Sez. III,
Sentenza n. 4400 del 04/03/2004
La Corte Suprema di Cassazione
Sezione III
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. Vittorio DUVA –
Presidente
Dott. Renato PERCONTE LICATESE
– Consigliere
Dott. Ennio MALZONE –
Consigliere
Dott. Antonio SEGRETO – rel.
Consigliere
Dott. Alfonso AMATUCCI –
Consigliere
ha pronunciato la seguente:
Sentenza
Sul ricorso proposto da:
B.C., T.A., elettivamente
domiciliati in ROMA VIA DI TRASONE 8 INT 12, presso lo studio dell’avvocato
CIRIACO FORGIONE, che li difende anche disgiuntamente all’avvocato ANTONIO
ROMANO, giusta delega in atti;
– ricorrenti –
contro
G.L. U./ R., sedente presso
l’A.. in G. M. (Mi), in persona del suo Commissario Liquidatore Dott. A. L.,
elettivamente domiciliata in ROMA VIA LEONIDA BISSOLATI 76, presso lo studio
dell’avvocato TOMMASO SPINELLI GIORDANO, che la difende anche disgiuntamente
all’avvocato FRANCO MONTI, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sent. n. 2539/99
della Corte d’Appello di MILANO, Sezione 1° civile, emessa il 21 settembre 1999
e depositata il 19 ottobre 1999 (R.G. 597/98);
Udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 11 dicembre 2003 dal Consigliere Dott. Antonio
SEGRETO;
Udito l’Avvocato Ciriaco
FORGIONE;
Udito l’Avvocato Maria Teresa
SAVINO (per delega Avv. Tommaso GIORDANO SPINELLI);
Udito il p.m., in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. MARINELLI Vincenzo,che ha concluso per il
rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 23
marzo 1993 A.T. e C. B. convenivano davanti al Tribunale di Milano la U. di R.,
chiedendone la condanna al risarcimento del danno loro derivante dalla morte di
A.B., marito della prima e padre del secondo, verificatasi il 19 settembre 1992,
all’ospedale di Rho. Assumevano gli attori che il loro congiunto verso le ore 8
di detto giorno era ricoverato in ospedale in preda a forti dolori addominali;
che i medici del pronto soccorso avevano diagnosticato un globo vescicolare,
inviando il paziente nel reparto di urologia, che ivi era stato sottoposto a
visita, con esito negativo; che il B. decedeva in detto reparto alle ore 10,30
per rottura di aneurisma dell’aorta addominale; che la morte dello stesso era da
addebitare ad errata diagnosi dei sanitari. Si costituiva la convenuta, che
resisteva alla domanda, chiedendone il rigetto.
Veniva disposta consulenza
medico-legale.
Il Tribunale di Milano, con
sentenza del 12 dicembre 1996, fatte proprie le conclusioni del c.t.u.,
accertava il colpevole errore diagnostico dei sanitari, che avevano omesso anche
gli accertamenti strumentali necessari, ma rigettava la domanda per mancanza del
nesso causale tra detto errore ed il decesso del B., in quanto, in caso di
corretta diagnosi e conseguente intervento chirurgico presso altra struttura
dotata di reparto di chirurgia vascolare, la sopravvivenza del paziente sarebbe
stata possibile ma non probabile.
Proponevano appello gli attori.
Resisteva la convenuta.
La corte di appello di Milano,
con sentenza depositata il 19 ottobre 1999, rigettava l’appello.
Riteneva la corte territoriale
che non vi erano elementi sufficienti per affermare con certezza la colpa dei
sanitari, rilevando che potevano esservi tre ipotesi, a seconda dei dolori
accusati dal B., per cui solo nella seconda e terza ipotesi, di dolori
addominali acuti, sarebbe stata evidente la colpa dei sanitari nel non
diagnosticare l’aneurisma con invio in altra struttura per l’intervento.
In ogni caso riteneva la corte
di merito che non era provato il nesso causale tra l’omessa diagnosi corretta
dell’aneurisma e l’evento letale, poichè, sulla base delle risultanze della
consulenza tecnica, tenuto conto del tempo necessario per eseguire gli
accertamenti atti a diagnosticare l’aneurisma aortico addominale e tenuto conto
che l’ospedale di Rho non era dotato di reparto di chirurgia vascolare e quindi
del tempo necessario per il trasferimento in altro ospedale, l’inizio
dell’intervento presso altra struttura si sarebbe potuto effettuare intorno alle
ore 10 del giorno del ricovero, orario in cui il B. perdeva conoscenza e si
verificava la rottura dell’aorta, per cui il prospettato intervento, già di per
sè a rischio di mortalità del 50%, tenuto conto anche dei gravi disturbi
epatici del B., non poteva che avere remote possibilità di successo, e per cio’
non apprezzabili, sotto il profilo del nesso causale in questione.
Avverso questa sentenza hanno
proposto ricorso per Cassazione gli attori, che hanno anche presentato memoria.
Resiste con controricorso la G.U. di R.
Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo di
ricorso, i ricorrenti lamentano l’insufficiente e contraddittoria motivazione
della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Assumono i ricorrenti che
erratamente la sentenza impugnata ha escluso l’errore diagnostico dei medici,
"inventando" tre possibili ipotesi della situazione di salute del B. al momento
del ricovero presso il pronto soccorso ospedaliere sostenendo che in caso di
dolori lievi all’addome non vi sarebbe stata colpa dei medici, mentre in caso di
dolori medi o alti, sussisterebbe detto colpevole errore, segnatamente
nell’ipotesi di dolori forti (ipotesi ritenuta più probabile dal giudice di
appello), nel guai caso la diagnosi era possibile sulla base del solo esame
clinico; che invece era indiscusso l’errore diagnostico dei sanitari; che, in
ogni caso, i medici non avevano effettuato alcun esame strumentale; che la prova
dell’assenza di colpa gravava in ogni caso sul debitore della prestazione e
quindi sulla U.
1.2. Con il secondo motivo di
ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt.
1218 e 2697 c.c., oltre che degli artt. 1362 c.c. e segg.. Ritengono i
ricorrenti che erratamente la sentenza di appello ha escluso il nesso di
causalità materiale tra il comportamento colpevole dei medici dell’ospedale di
Rho e la morte di A.B. Secondo i ricorrenti erratamente il giudice di appello ha
ritenuto che la prova del detto nesso di causalità gravava sugli appellanti,
mentre, trattandosi di responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliere,
competeva a quest’ultimo fornire la prova che la prestazione professionale era
stata eseguita idoneamente e che la morte del B. era imputabile ad eventi
imprevedibili.
Secondo i ricorrenti il medico
risponde anche per colpa lieve ed, in ogni caso, la responsabilità è presunta
a norma dell’art. 1218 c.c.; che sussiste detto nesso causale tra il
comportamento colpevole del medico che, omette un intervento necessario ed il
decesso del paziente, quando vi è un apprezzabile probabilità di successo.
2.1. Ritiene questa Corte che i
due motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vadano esaminati
congiuntamente.
Essi sono fondati e vanno
accolti.
E’ pacifico che la
responsabilità dell’E. (o delle U. ed attualmente delle A.) nei confronti dei
pazienti ricoverati abbia natura contrattuale (cfr. Cass. n. 7336 del 1998 e n.
4152 del 1995), anche per quanto attiene al comportamento dei propri dipendenti
medici.
E’ irrilevante in questa sede
stabilire se detta responsabilità sia conseguenza dell’applicazione dell’art.
1228 c.c., per cui il debitore della prestazione, che si sia avvalso dell’opera
di ausiliari, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi ovvero del
principio di immedesimazione organica, per cui l’operato del personale
dipendente di qualsiasi ente pubblico ed inserito nell’organizzazione dei
servizio determina la responsabilità diretta dell’ente medesimo, essendo
attribuibile all’ente stesso l’attività del suo personale (cfr. Cass. N.
9269/1997 e Cass. n. 10719/2000).’
2.2. Cio’ che rileva, in questa
sede, è che l’ente ospedaliero risponde direttamente della negligenza ed
imperizia dei propri dipendenti nell’ambito delle prestazioni sanitarie
effettuate al paziente.
Ne consegue che in relazione
all’attività sanitaria posta in essere dal medico, l’ente ospedaliero (o la
USSL) è contrattualmente responsabile se il medico è almeno in colpa.
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