Assenze per malattia – calcolo del periodo di comporto – assenze per infermità imputabili a responsabilità del datore di lavoro. Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 7730 del 23/04/2004
La fattispecie del recesso del
datore di lavoro – per l’ipotesi di assenze determinate da malattia del
lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata quanto in quello del
succedersi di diversi episodi morbosi (cal. eccessiva morbilità) – si inquadra
nello schema previsto ed è soggetta alle regole dettate (dall’art. 2110 c.c.),
che prevalgono – per la loro specialità – sia sulla disciplina generale della
risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della
prestazione lavorativa (art. 1256, comma 2, e 1464 c.c.), sia sulla disciplina
limitativa dei licenziamenti individuali (leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del
1970 e successive modifiche) con la conseguenza che, in dipendenza della
prospettata specialità e del contenuto derogatorio di dette regole, il datore
di lavoro, da un lato, non puo’ unilateralmente recedere o, comunque, far
cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità
dell’assenza (cal. periodo comporto) – predeterminato dalla legge, dalla
disciplina collettiva o dagli usi oppure, nel difetto di tali fonti, determinato
dal giudice in via equitativa – e, dall’altro, che il superamento di quel limite
è condizione sufficiente di legittimità del recesso – nel senso che non è
all’uopo necessaria la prova dei giustificato motivo oggettivo (art.3 della
legge n. 604 dei 1966), nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione
lavorativa (art. 1256, comma 2, e 1464 c.c.), nè delta correlata impossibilità
di adibire il lavoratore a mansioni diverse senza che ne risultino violati
disposizioni o principi costituzionali.
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 7730 del 23/04/2004
(Presidente S. Ciciretti – Relatore M. Del Luca)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la
sentenza ora denunciata, la Corte d’appello di Lecce confermava la sentenza del
Tribunale di Brindisi in data 20 febbraio 2001 – che aveva accolto la domanda
proposta da A. C. M. contro la (omissis) S.p.a., per sentirne dichiarare
illegittimo (con ogni conseguenza, di cui all’art. 18 legge 20 maggio 1970, n.
300, cal. Statuto dei lavoratone il licenziamento intimatogli per superamento
del periodo di comporto per malattia, mentre rigettava la domanda volta ad
ottenere il risarcimento del danno alla salute – essenzialmente in base ai
rilievi seguenti:
il lavoratore è stato assunto
obbligatoriamente, quale invalido del lavoro (ai sensi della legge n. 482 del
1908), e non possono, quindi, essere incluse – nel periodo di comporto – le
assenze (di 57 giorni, dal 30 agosto al 25 ottobre 1996) per malattia (lombalgia)
determinata dalla adibizione dello stesso lavoratore a mansioni (di saldatore
tradizionale ad argon) incompatibili con !e sue condizioni di salute;
invero la consulenza tecnica
d’ufficio ha accertato che "i vari episodi di lombalgia sofferti dal M. non
possono non essere messi in relazione al danno vertebrale patito dallo stesso M.
a seguito dell’infortunio sul lavoro avvenuto nel 9985" – che ne ha determinato
l’inclusione, quale invalido del lavoro appunto, nelle liste per il collocamento
obbligatorio – e che la idoneità a saldare del medesimo lavoratore "è limitata
ad operazioni al banco o comunque in posizione favorevole del tronco";
dalle deposizioni dei testi "più
significativi" – per avere "lavorato insieme al M." (Crocefisso Muri, saldatore
fino al 1990; Raffaele Vita, caposquadra fino al 1994; Cesare Canuti, lattoniere
fino al 1994) – risulta che il medesimo lavoratore, per svolgere la propria
attività, ha assunto, invece, "posture incongrue" – quali la "posizione eretta
o da seduto, talvolta accosciato o piegato, anche senza il sollevamento di pesi"
– che, secondo il c.t.u., "hanno potuto essere la causa (…) dell’assenza dal
lavoro per la malattia documentata e denunciata" con le certificazioni mediche
prodotte;
peraltro dalle deposizioni di altri
testi, "anche se più favorevoli alla tesi della società, si evince pur sempre
che la detta società sapeva dei problemi vertebrali che affliggevano il M. e,
ciononostante, continuo’ ad adibirlo ad una attività (quella di saldatore) che
certamente non gli era di, aiuto (tanto vero che nel 1997 decise di trasferirlo
al magazzino)";
va, invece, confermato il rigetto
della domanda dello stesso lavoratore – volta ad ottenere il risarcimento del
danno alla salute – in quanto, pur essendo stato "accertato il nesso di
causalità tra !’attività lavorativa espletata e gli episodi temporanei di
riacutizzazione della patologia lombare, che ebbero a determinare le assenze dal
lavoro, non è stata fornita alcuna prova circa uno stabile e concreto
peggioramento delle condizioni di salute del lavoratore, tale da concretizzare
un danno effettivo alla salute".
Avverso la sentenza d’appello, la
(omissis) S.p.a. propone ricorso per cassazione, affidato ad un motivo.
L’intimato A. C. M. resiste con
controricorso e propone, contestualmente, ricorso incidentale, affidato ad un
motivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.
Preliminarmente
va disposta la riunione del ricorso incidentale al ricorso principale, in quanto
proposti separatamente contro la stessa sentenza (art. 335 c. p. c. ).
2.
1.Con l’unico motivo del
ricorso principale – denunciando vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) –
la (omissis) S.p.a. censura la sentenza impugnata – per avere dichiarato
illegittimo (con ogni conseguenza, di cui all’art. 18 legge 20 maggio 1970, n.
300, cal. Statuto dei lavoratori) il licenziamento intimato al proprio
dipendente A. C. M. (attuale ricorrente incidentale), per superamento del
periodo di comporto per malattia – sebbene inducessero ad opposta decisione, se
prese in esame, le prove contrarie – rispetto a quelle selezionate dal giudice
di merito e poste a base della propria decisione – specificamente ed
analiticamente indicate nel ricorso, in dichiarato ossequio al principio di
autosufficienza.
Il ricorso principale non è fondato.
2.
2. Invero la fattispecie del
recesso del datore di lavoro – per l’ipotesi di assenze determinate da malattia
del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata quanto in quello
del succedersi di diversi episodi morbosi (cal. eccessiva morbilità) – si
inquadra nello schema previsto ed è soggetta alle regole dettate (dall’art.
2110 c.c.), che prevalgono – per la loro specialità – sia sulla disciplina
generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità
parziale della prestazione lavorativa (art. 1256, comma 2, e 1464 c.c.), sia
sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali (leggi n. 604 del 1966
e n. 300 del 1970 e successive modifiche) – secondo la giurisprudenza (ora
consolidata) di questa Corte (dopo le sentenze delle sezioni unite n, 2072,
2073, 2074180, vedine, per tutte, le sentenze della sezione lavoro n. 5413/2003,
5066/2000, 14065, 13992/99, 5927/96, 6601 /95, 3213/87, 3879/86, 5741, 4095,
2806/85, 5968, 1973/84, 4068, 3909, 1726/83, 1168/82) – con la conseguenza che,
in dipendenza della prospettata specialità e del contenuto derogatorio di dette
regole, il datore di lavoro, da un lato, non puo’ unilateralmente recedere o,
comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di
tollerabilità dell’assenza (cal. periodo comporto) – predeterminato dalla
legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi oppure, nel difetto di tali
fonti, determinato dal giudice in via equitativa – e, dall’altro, che il
superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso
– nel senso che non è all’uopo necessaria la prova dei giustificato motivo
oggettivo (art.3 della legge n. 604 dei 1966), nè della sopravvenuta
impossibilità della prestazione lavorativa (art. 1256, comma 2, e 1464 c.c.),
nè delta correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse
(in tal senso è Cass., sez. un. n. 7755 dei 1998, sez, lav. n. 5413/2003, cit.)
– senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (vedi
Cass. 5413/2003, 5927/96, cit. ).
2.
3.Le assenze dei lavoratore per
malattia non giustificano, tuttavia, il recesso dei datore di lavoro – in
ipotesi di superamento dei periodo di comporto – ove l’infermità sia, comunque,
imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro – in dipendenza della
nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro, che abbia omesso di
prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.)
o di specifiche norme – incombendo, peraltro, al lavoratore l’onere di provare
il collegamento causale fra la malattia – che ha determinato l’assenza (e,
segnatamente, l superamento dei periodo di comporto) – ed il carattere
morbigeno delle mansioni espletate (in tal senso, vedi, per tutte, Cass. n.5413/2003,
5066/2000, 11700, 6601/95).
2.
4.In particolare, nell’ipotesi
– che qui interessa – di rapporto d lavoro con invalido assunto
obbligatoriamente (ai sensi della legge 12 aprile 1968, n. 482, applicabile
ratione temporis alla dedotta fattispecie), le assenze per malattie, collegate
con lo stato di invalidità, non possono essere incluse – secondo la
giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n.10769/94,
2302/90, 2848/87) – nel periodo di comporto, ai fini dei diritto alla
conservazione dei posto di lavoro (a norma dell’art. 2110 c.c., cit.) – se
l’invalido sia stato adibito (in violazione dell’art. 20 legge n. 482 dei 1968,
cit.) a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche – in quanto
l’impossibilità della prestazione lavorativa deriva, in tale caso, dalla
violazione, da parte del datore di lavoro, dei prospettato obbligo di tutelare
l’integrità fisica del lavoratore, che è gravato, tuttavia, dell’onere di
provare (ai sensi dell’art. 2697 c.c.) gli elementi oggettivi della fattispecie
– sulla quale si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro –
dimostrandone, quindi, l’inadempimento, nonchè il nesso di causalità tra
l’inadempimento stesso, il danno alla salute e le assenze dal lavoro, che ne
conseguano.
Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata non merita,
tuttavia, le censure, che le vengono mosse dal ricorrente, neanche sotto il
profilo del vizio di motivazione (art.360, n. 5, c.p.c.).
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