Intervista a Laura Pennacchi: Rafforzare ed estendere l’eguaglianza e la cittadinanza.
Abbiamo intervistato Laura
Pennacchi, economista, componente della Sezione Scienze Sociali della Fondazione
Di Vittorio, ex Sottosegretario di Stato per il tesoro e bilancio nei
Governi Prodi e D’Alema.
E’ possibile mettere in relazione le politiche economiche sviluppate
dall’amministrazione Bush e, qui in Italia, dal governo Berlusconi ?
C’è una profonda affinità tra le politiche di Bush e le politiche di
Berlusconi, sia sul piano esterno (strategia “neoimperiale” e guerra), sia sul
piano interno (aggressivi piani di tagli fiscali a vantaggio dei più ricchi,
deficit pubblico).
La ripresa in corso negli Usa non sembra aver cancellato le difficoltà
economiche manifestatisi ben prima dell’11 settembre 2001 (con l’esplosione
nella primavera del 2000 della “bolla speculativa” nei mercati borsistici),
difficoltà segnate da “un eccesso di investimenti” da parte delle imprese da un
lato, da “un eccesso di indebitamento” da parte di tutti gli operatori privati
da un altro. L’amministrazione repubblicana decide di farvi fronte svalutando il
dollaro, sommando agli effetti sul deficit pubblico delle spese militari quelli
derivanti dalle costosissime riduzioni di imposte a vantaggio dei più ricchi,
facendo leva su una rialimentazione drogata della borsa. Il condizionamento
americano delle potenzialità di crescita economica del resto del mondo
rivitalizza rischi di regressione nei complessi fenomeni di integrazione dei
diversi sistemi nazionali in atto in molte aree del globo, ma specialmente in
Europa, alla cui recente unificazione monetaria e alla successiva, necessaria,
maggiore unificazione politica non a caso l’amministrazione repubblicana non
guarda con lo stesso favore con cui vi guardava l’amministrazione Clinton. Cosi’
l’arduo processo di cessione di sovranità dai paesi nazionali ad entità
sovrastatali viene reso ancora più difficile.
Dunque, questo tipo di politica è un ostacolo anche per la costruzione europea.
Come ci si puo’ opporre ?
Per contrastare tutto cio’, occorrono in Europa politiche comuni di governo,
economico e sociale, urge dare vita, con le parole di Romano Prodi, a
“specifiche politiche pubbliche” europee. In un quadro nel quale l’unificazione
monetaria europea ” a cui non è ancora stato associato il necessario, più
intenso sviluppo delle istituzioni politiche e un vero coordinamento delle
politiche economiche ” ha costituito una prima risposta ai processi odierni di
globalizzazione e, al tempo stesso, la via per tentare di evolvere da condizioni
di relativo “declino” verso una più matura “Europa politica” ed “Europa
sociale”, Prodi ha indicato la necessità di dare corpo alla volontà di
procedere, in un contesto continentale, “nel senso dell’adeguamento e del
rafforzamento del sistema di garanzie e della giustizia sociale”. La
realizzazione dell’agenda definita a Lisbona nel 2000 non puo’ più attendere.
Non sembra essere questa la tendenza in atto in Italia, almeno dall’insediamento
del governo Berlusconi
Si’ E, in questo senso, non vanno sottovalutati nè l’antieuropeismo di fatto
del centro-destra italiano, nè la centralità culturale, per cosi’ dire, del
piano di tagli fiscali nel suo programma e nemmeno i cattivi risultati in
materia di finanza pubblica del governo Berlusconi. Non è solo questione di
riflessi sull’Italia delle difficoltà che da più di tre anni attanagliano
l’economia mondiale. Il governo ci ha messo del suo, facendo aumentare il
deficit e compromettendo il risanamento finanziario realizzato dai precedenti
governi ” che portarono il disavanzo dal 7,7% del 1996 allo 0,6% del 2000 ”
senza, pero’, riuscire a rilanciare l’economia: nel 2003 il PIL italiano è
fermo a un tasso di crescita dello 0,3%.
Il governo ha, pero’, impoverito definanziandole scuola, formazione, università,
sanità, previdenza, ha depotenziato la ricerca scientifica e tecnologica, ha
frammentato e destrutturato il mercato del lavoro, ha abbandonato a un destino
di marginalità le aree territoriali in ritardo di sviluppo, ha depresso risorse
(tagliando i trasferimenti) e ruoli qualitativi di regioni ed enti locali,
Il governo ha reso singoli individui più ricchi ma ha reso le imprese più
povere, in barba a tutte le teorie dell’offerta, le ha cioè depotenziate, in
qualità e in spirito innovativo, entrambi, invece, attributi vitali per un
sistema produttivo come quello italiano, segnato dalla contrazione delle
attività industriali e dalla crisi della grande impresa.
Ed il “meno tasse per tutti”, come si inserisce in questo quadro ?
E’ il perno di un circolo vizioso che si articola nel modo seguente:
– affidamento esclusivo a (presunti) automatismi di mercato, ma un mercato
concepito in termini “tribali”, dunque in termini tali da lasciare spazio enorme
a poteri sottratti ad ogni regola e ad ogni controllo;
– negazione di efficaci funzioni pubbliche a sostegno dello sviluppo economico e
affermazione, in loro vece, di un “comando” decisionista colbertiano che
privatizza le stesse funzioni di governo;
– contrazione delle istanze di equità e di protezione sociale.
Sono queste le implicazioni del binomio “riduzione delle tasse/arretramento del
perimetro dello stato”, (obiettivi enunciati con chiarezza e scritti nero su
bianco addirittura nella relazione introduttiva alla prima legge Finanziaria del
governo Berlusconi, quella preparata nel 2001 per il 2002). I propositi fiscali
si confermano baricentro di un processo più ampio, processo che in Italia si
svolge in modo da rendere maggiormente chiaro quanto siano congiunti i rischi di
“tribalizzazione” delle relazioni economiche e quelli di “imbarbarimento” dei
rapporti sociali.
Detassazione ed esaltazione dei più primitivi animal spirits di mercato stanno
insieme, cosi’ come esse inducono deresponsabilizzazione dell’operatore
pubblico, il quale, infatti, mentre privilegia attivamente non la competitività
delle imprese ma il potere di potentati affaristici e i redditi dei rentiers di
grande e di piccolo cabotaggio, abbandona alla frammentazione la struttura
sociale e al declino la vitalità dell’economia La crociata antitasse si esprime
in un miscuglio di spirito oligarchico, neoliberismo, populismo, intrinsecamente
votato all’escalation. Di esso è parte l’esaltazione di una dimensione
“proprietaria-affaristica” con forti tratti di primitivismo, osannante
l’immediatezza dell’individualità liberata dalle tasse e restituita alla sua
“forza” primigenia, un primitivismo agli antipodi delle visioni democratiche
“moderne”, basate sul primato della “mediazione” istituzionale e dei soggetti
terzi e sul valore della norma e della regola. A dispetto degli innumerevoli
osanna alla modernità e alla modernizzazione ” e delle illusioni nutrite a
riguardo -, si profilano rischi di regressione alla società preborghese e
premoderna.
In che senso ?
La parola d’ordine della riduzione “oltranzistica” delle tasse a vantaggio dei
più ricchi contiene una forte svalutazione della responsabilità collettiva
come principio di regolazione sociale. L’oltranzismo anti-tasse vuole un ruolo
pubblico ristretto e angusto, il quale, a sua volta, presuppone una visione
altrettanto ristretta e angusta del rapporto tra individuo e collettività,
mirata a soffocare le istanze di socialità: l’individuo è un atomo, non
esistono responsabilità collettive perchè “non esiste la società”, celebre
motto della signora Thatcher. E’ in questione l’idea stessa di “responsabilità
collettiva”, l’idea che, in quanto cittadini, c’è qualcosa che ci dobbiamo l’un
l’altro come “concittadini”, l’idea ” scolpita nelle premesse kantiane della
modernità ” che ciascuno di noi costituisce l’individualità che è perchè
parte di una “comunità di fini”, l’idea in forza della quale realizziamo i
legami che ci fanno essere, in democrazia, attori morali ” prima ancora che
soggetti politici ” capaci di scelte e di convivenza civile.
La rottura del legame sociale, della responsabilità collettiva, ha un suo
riverbero anche su scala planetaria, con la crescita del “gap” tra Nord e Sud
del mondo
E’ evidente che è stata raggiunta e superata quella soglia per cui le
diseguaglianze si palesano, oltre che come enorme questione di giustizia
“distributiva”, come grande questione di giustizia e di efficienza “allocativa”,
in quanto ostacolo tout court alle possibilità di crescita e impedimento dello
sviluppo. I costi economici delle diseguaglianze si manifestano in modo brutale
quando la differenza fra la paga dei primi 100 super manager americani e quella
di un lavoratore medio balza da 30 volte ” tanta era nel 1970 ” a 1000 volte,
come si rileva all’inizio del 2000. Non c’è, infatti, elemento oggettivo in
termini di abilità, competenza, esperienza, apprendimento che possa
giustificare un simile salto nella discrepanza, mentre ci sono molti elementi,
oggettivi e soggettivi, che la spiegano in termini di effervescenza delle borse,
bolle speculative, stock option irrazionali, scandali aziendali, briglie sciolte
sui mercati finanziari.
Non bisogna sottovalutare i seri squilibri che dagli USA si riverberano in tutta
l’economia mondiale: esplosione del debito pubblico, indebitamento privato a
livelli superiori a quelli raggiunti nel 1929 prima della “grande crisi” e
deficit record della bilancia dei pagamenti, eccessi di capacità produttiva
nelle nuove tecnologie, valorizzazione spropositata dei titoli azionari. Di
questa valorizzazione spropositata va sottolineato il particolare aspetto
consistente nel fatto che essa ha aiutato a far acquisire gli incrementi di
produttività prevalentemente al capitale, a danno del lavoro: la
redistribuzione del reddito è stata cosi’ sempre più sospinta verso una
concentrazione della ricchezza finanziaria che, a sua volta, riducendo la
propensione all’assunzione diretta del rischio, ha accentuato la tendenza alla
speculazione, alla base della mancanza di trasparenza nei bilanci delle imprese,
di veri e propri imbrogli e truffe, del dissesto di grandi fondi pensione.
In ogni caso, la concentrazione nelle mani dei benestanti del reddito e della
ricchezza sta raggiungendo punte senza precedenti ed è tale da profilare il
rischio di quella che viene definita “scomparsa dei ceti medi”.
C’è una relazione tra questo ed il dibattito italiano sull’impoverimento dei
ceti medi ?
Certamente. In Italia, l’assoluto disimpegno del governo Berlusconi nel
contenimento dell’inflazione, la stagnazione quando non la diminuzione delle
retribuzioni contrattuali reali, la capacità solo parziale delle retribuzioni
di fatto di incorporare i guadagni di produttività, si sono riflesse sulla
distribuzione interna al lavoro dipendente, che peggiora, a danno dei più
deboli, cioè i lavoratori low paid (la cui quota è più che raddoppiata),
specie se donne (un quarto del totale delle lavoratrici dipendenti ha una bassa
retribuzione) o lavoratori del Mezzogiorno (in cui la quota dei dipendenti a
basso salario è addirittura più che triplicata, arrivando negli ultimi anni
intorno al 30 per cento.
Quali possono essere le indicazioni, le proposte del centrosinistra ?
Occorre innanzitutto definire le priorità, per disegnare il quadro entro cui
eguaglianza e cittadinanza possono essere rafforzate ed estese. Lavoro e
occupazione, istruzione e formazione, Ricerca e Sviluppo e innovazione sono
strategici per rilanciare lo sviluppo, contrastare la povertà, combattere le
diseguaglianze. Anche per questo è sbagliato pensare che l’espansione di una
componente del welfare possa avvenire solo a scapito di qualcun’altra (a meno
che la componente che si vuole ridimensionare non sia obsoleta o
finanziariamente fuori controllo). Lo slogan “meno pensioni più welfare” da una
parte sembra non tenere conto di questa realtà, dall’altra sembra riproporre
una logica di trade-off, una sorta di gioco a somma zero (questa volta interno
al welfare). A questo slogan è altrettanto errato opporre l’irrilevanza del
vincolo di bilancio che è, invece, imprescindibile. La chiave di volta è la
riscoperta del “processo di Lisbona” (non il suo farsesco “rovesciamento”
perseguito dal governo Berlusconi), cioè l’innalzamento del tasso di attività
e di occupazione e di quello di istruzione e di qualificazione, dunque politiche
pubbliche per: – giovani; – donne; – adulti over 55; – immigrati.
– E’ necessario dare più spazio ai servizi, riequilibrando il peso dei
trasferimenti, sia monetari sia fiscali, i quali ultimi, dato il vincolo di
selettività intrinseco alla prospettiva volta a modificare strutturalmente la
qualità dello sviluppo italiano, possono avere solo un ruolo circoscritto. In
questo quadro trovano spazio politiche di riduzione del costo del lavoro,
realizzabili, anzi, in via preferenziale rispetto a indiscriminate politiche di
contrazione della pressione fiscale, in forme anch’esse selettive a partire dai
redditi più bassi, nello spirito della proposta Delors.
– Benchè collegate, le funzioni redistributive e quelle assicurative vanno
distinte. Le seconde inducono le persone ad assumersi rischi e sono tipicamente
svolte da sistemi come quello pensionistico e più in generale previdenziale. Le
componenti del welfare che hanno principalmente finalità assicurative ” come le
pensioni ” svolgono solo secondariamente funzioni redistributive: è dunque
errato sia valutarne l’efficacia basandosi innanzitutto su indicatori di impatto
redistributivo, sia ipotizzarne un finanziamento prevalente per via fiscale.
– La prospettiva dell’eguaglianza dà valore alla redistribuzione (monetaria e,
quindi, fiscale) ma non si esaurisce e non coincide con essa, giacchè deve
essere sottolineato l’enorme impatto egualitario che hanno i servizi. Le
funzioni redistributive mantengono un ruolo importante ed esse incorporano la
lotta alla povertà (vista non come altro dalle diseguaglianze ma come forma
estrema di diseguaglianza). Cio’ va ribadito per contestare coloro che
sostengono l’ormai sancita irrilevanza della redistribuzione (e per questo
auspicano sia la riduzione della pressione fiscale sia la contrazione del suo
profilo di progressività), ma anche coloro che rischiano di sopravvalutarne o
di alterarne il significato (per esempio spostando il welfare tutto sul terreno
dei trasferimenti monetari e dei benefici fiscali). Inoltre, occorre dare
crescente importanza, accanto a quella ex post (che “compensa” monetariamente e
fiscalmente), a una nozione ex ante di redistribuzione, tale, cioè, da
considerare essenziali non solo il “reddito” ma anche gli “stili di vita”, e qui
tornano in gioco i servizi. Infatti, importanti – anzi strategiche ” funzioni
redistributive ex ante sono svolte attraverso i servizi ” di istruzione, di
educazione permanente, di sanità, per la “non autosufficienza”, il “tempo
libero”, la fruibilità ambientale, etc. ” in quanto riguardano la
redistribuzione degli “stili di vita” di una società e, quindi, la costruzione
di un’omogeneità culturale di base, fondamentale per una cittadinanza condivisa.
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