Penale

Concordare con il dipendente salari non adeguati alle ore di lavoro prestate integra il reato di estorsione (Cassazione 5426/2002)

Importante pronunzia della Seconda
Sezione Penale della Corte di Cassazione, la quale ha statuito il
principio secondo cui i datori di lavoro che concordano con i propri
dipendenti salari non adeguati alle ore di lavoro prestate commettono il
reato di estorsione. Rileva la Corte che l’esistenza di un accordo
contrattuale tra il datore di lavoro e il lavoratore non esclude la
sussistenza degli estremi del reato di estorsione, in quanto anche uno
strumento giuridico teoricamente legittimo può essere usato per scopi
diversi da quelli per cui è stato apprestato e quindi può rappresentare
una "ingiusta minaccia" punibile penalmente. Ha altresí
richiamato la propia giurisprudenza
è
giurisprudenza che, in tema di estorsione, ai fini della configurabilità 
del reato ha sempre ritenuto indifferenti la forma o il modo della
minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata,
diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o
indeterminata, purchè comunque idonea, in relazione alle circostanze
concrete, a incutere timore e a coartare la volontà  del soggetto passivo.

 

 


Suprema Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, sentenza n.5426/2002

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il G.i.P. presso il Tribunale di Catanzaro, con
ordinanza in data 26 marzo 2001, applicava nei confronti di Zaccuri
Angelo, la misura cautelare degli arresti domiciliari, in quanto indagato
del delitto di estorsione continuata, nell’ambito di un procedimento che
vede indagate 14 persone, che, nella loro qualità  di imprenditori,
amministratori, capi squadra e coordinatori di aziende operanti nel
settore delle imprese di pulizia avrebbero posto in essere un sistema
estorsivo generalizzato nei confronti dei dipendenti delle aziende stesse,
che sarebbero stati costretti ad accettare trattamenti retributivi
deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate, in quanto non
avrebbero avuto altre possibilità  lavorative proprio in considerazione
della diffusione di tali comportamenti estorsivi nel contesto delle
attività  delle imprese di pulizia.

I reati contestati nell’ambito del suddetto
procedimento sono quelli di associazione per delinquere ed estorsione,
mentre allo Zaccuri è contestato unicamente il reato di estorsione nella
sua qualità  di gestore di fatto della impresa Pulizie Jonica.

Il Tribunale osservava che poteva configurarsi il reato
di estorsione soltanto nei confronti di un dipendente dell’impresa di
pulizie, che in effetti aveva ricevuto minacce esplicite, mentre nei
confronti degli altri dipendenti non si evidenziava la ricorrenza della
minaccia, in quanto questi avevano dichiarato di essersi accordati
verbalmente con la titolare dell’azienda nel senso di percepire una
retribuzione non parametrata alle effettive ore lavorative.

Ciò precisato, il Tribunale non riteneva sussistenti
le esigenze cautelari inerenti alla acquisizione della prova essendo stati
acquisiti i documenti societari e non emergendo altri elementi di
pericolo; ne riteneva sussistente il pericolo della reiterazione criminosa
atteso che la commissione del reato risale al 1997 e che lo Zaccuri,
sostanzialmente incensurato, nel frattempo si è astenuto dal commettere
azioni criminose.

Propone ricorso per cassazione il Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, il quale deduce la
contraddittorietà  dell’argomentare della ordinanza impugnata che
ritiene configurabile il reato di estorsione nei casi in cui le minacce
nei confronti del lavoratore siano esplicite, in considerazione delle
condizioni di soggezione morale e sociale del lavoratore stesso, mentre
poi esclude la configurabilità  dello stesso reato nei casi in cui vi sia
stato un accordo contrattuale.

Infatti, secondo il P.M. ricorrente non potrebbe essere
valutato come accordo contrattuale il comportamento del lavoratore che è
indotto ad accettare le condizioni impostegli dal datore di lavoro per la
consapevolezza della posizione di supremazia di costui e delle conseguenze
inevitabili della mancata accettazione delle condizioni stesse.

Il P.M., inoltre, deduce assoluta carenza motivazionale
con riferimento alla asserita mancanza delle esigenze cautelari, in quanto
il cardine dell’intera indagine sarebbe costituita dalla prova orale e
da ciò discenderebbe la necessità  di tutelare le fonti di prova nei
confronti di concrete azioni volte a condizionare l’agire collaborativo
dei dipendenti dell’impresa.

Per quanto concerne le esigenze di cautela sociale, il
P.M. ricorrente afferma che lo Zaccuri avrebbe posto in essere condotte
gravi e reiterate nel tempo in danno di moltissimi dipendenti, segno di un
agire per nulla occasionale ma stabile e organizzato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I motivi di ricorso sono fondati.

Il collegio osserva che è giurisprudenza costante di
questa Suprema Corte che, in tema di estorsione, ai fini della
configurabilità  del reato sono indifferenti la forma o il modo della
minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata,
diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determina o
indeterminata, purchè comunque idonea, in relazione alle circostanze
concrete, a incutere timore e a coartare la volontà  del soggetto passivo.

La connotazione di una condotta come minacciosa e la
sua idoneità  ad integrare l’elemento strutturale del delitto di
estorsione devono essere valutate in relazione a concrete circostanze
oggettive, quali l’ingiustizia della pretesa, la personalità 
sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso
opera, le particolari condizioni soggettive della vittima, vista come
persona di normale impressionabilità , a nulla rilevando che si verifichi
un’effettiva intimidazione del soggetto passivo (Sez. I, 10/1-
21/5/1980, n. 6416, Del Cosimo, riv. 145382; Sez. I, 22/1- 21/5/1980, n.
6424, Cassaro, riv. 145387; Sez. II, 1/10/1982, n. 969, Borin, riv.
151919; Sez. II, 8/6- 12/10/1983, n. 8224, Paraino, riv. 160268; Sez. Vi,
25/2- 13/5/1998, n. 5569, Pera, riv. 210526; Sez. Vi, 26/1- 16/3/1999, n.
3298, Savian, riv. 212945).

Nel caso di specie, pertanto, la circostanza che vi sia
stato un accordo contrattuale tra il datore di lavoro e il lavoratore non
esclude, di per se, la sussistenza degli estremi del reato di estorsione,
in quanto uno strumento giuridico teoricamente legittimo può essere usato
per scopi diversi da quelli per cui è stato apprestato e può integrare,
al di la dell’apparenza esteriore, una minaccia ingiusta, perchè
ingiusto è il fine a cui esso tende, idonea a condizionare la volontà 
del soggetto passivo, particolarmente interessato ad assicurarsi una
possibilità  lavorativa che sarebbe altrimenti esclusa.

In altri termini, il giudice di merito deve valutare se
la condotta dell’indagato sia stata posta in essere nella sola
prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno,
attraverso un percorso comportamentale che, al di la dell’aspetto
formale dell’accordo contrattuale, poneva certamente la vittima in uno
stato di soggezione, ravvisabile nell’alternativa di accedere
all’ingiusta richiesta dell’agente o di subire un più grave
pregiudizio, anche se non esplicitamente prospettato, ravvisabile nella
specie nell’assenza di altre possibilità  occupazionali, escluse dalle
generali circostanze ambientali e/o delle specifiche caratteristiche
assunte (anche per l’eventuale configurabilità  di un’associazione per
delinquere) da una speciale settore di impiego della manodopera.

Alla luce di tali principi, la semplice dichiarazione
dei dipendenti dell’impresa Pulizie Jonica di essersi accordati
verbalmente con la titolare dell’azienda nel senso di percepire una
retribuzione non parametrata alle effettive ore lavorative non è
sufficiente di per se, in assenza di una complessiva valutazione di tutti
gli elementi sopra evidenziati, ad escludere il reato di estorsione e,
quindi, risulta giuridicamente viziata la motivazione sul punto della
ordinanza impugnata.

Tale vizio incide sulla valutazione delle esigenze
cautelari, in quanto, solo alla luce di un a corretta decisione in merito
alla configurabilità  dei reati contestati sarà  possibile effettuare la
valutazione delle suddette esigenze, anche in considerazione della
necessità  evidenziata dal P.M. ricorrente di tutelare le dichiarazioni
testimoniali a supporto dei reati eventualmente configurabili in
applicazione dei principi di diritti come sopra formulati.

L’ordinanza deve, dunque, essere annullata con rinvio
al Tribunale di Catanzaro per nuova decisione che si uniformi alla
presente sentenza per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa
decisa.

PQM

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuova
decisione al Tribunale di Catanzaro.

Roma, 13 novembre 2001.

Depositata in Cancelleria l’11 febbraio 2002.

 
 

https://www.litis.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Litis.it
Panoramica privacy

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.