Prescrizione del reato maturata successivamente alla pronunzia della corte di appello e prima della decorrenza del termine per proporre ricorso – Cass. Sentenza Sezioni Unite Penali n. 33542 dell’11 settembre 2001
Corte Suprema di Cassazione
Giurisprudenza Civile e Penale
Sentenza n. 33542 dell’11 settembre 2001
RICORSO PER CASSAZIONE TENDENTE AD OTTENERE ESCLUSIVAMENTE LA
DICHIARAZIONE DI PRESCRIZIONE DEL REATO MATURATA SUCCESSIVAMENTE ALLA
PRONUNZIA DELLA CORTE DI APPELLO E PRIMA DELLA DECORRENZA DEL TERMINE
PER PROPORRE RICORSO.
(Sezioni Unite Penali – Presidente A. Vessia – Relatore G. De
Roberto)
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO
1. C. Q. ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza 3
luglio 2000 con la quale la Corte di appello di Lecce confermava la
decisione 18 novembre 1999 del locale Tribunale, Sezione distaccata di
Casarano, che l’aveva condannato alla pena di lire 100.000 di multa per
il reato di diffamazione.
Con unico motivo il ricorrente richiede la dichiarazione di
estinzione del reato per prescrizione maturata successivamente alla
sentenza di appello.
2. Il ricorso è stato assegnato alla Quinta Sezione di questa Corte
che, con ordinanza dell’8 febbraio 2001, lo ha rimesso alle Sezioni
unite a norma dell’art. 618 c.p.p.
Premesso che il termine di prescrizione del reato ascritto al C. è
decorso il 17 agosto 2000, vale a dire nel periodo intercorrente fra la
pronuncia della scadenza del termine per proporre impugnazione, la
sottopone alle Sezioni unite il quesito il ricorso per cassazione teso
unicamente a far la prescrizione del reato maturata nelle more del
rimettente ammissibile accertare gravame".
Rileva che sul punto esiste un contrasto giurisprudenziale perchè,
mentre talune decisioni, sul presupposto che fino al momento in cui la
sentenza non sia divenuta irrevocabile, il giudice è tenuto sempre ad
applicare l’art. 129 c.p.p., operante in ogni stato e grado del
processo, si sono pronunciate nel senso della operatività della causa
estintiva, altre decisioni, ritenendo il ricorso privo di denunce
incentrate sulla legittimità del provvedimento impugnato, si sono
pronunciate nel senso della inammissibilità del gravame, in quanto
sprovvisto dei necessari motivi.
3. Il Primo Presidente Aggiunto ha rimesso il ricorso alle Sezioni
unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., per la soluzione del contrasto
giurisprudenziale.
4. Le Sezioni unite sono chiamate, dunque, a decidere se il ricorso
che abbia ad oggetto esclusivo la richiesta di dichiarazione di
estinzione del reato maturata – come nel caso di specie –
successivamente alla pronuncia della sentenza di appello ma prima della
decorrenza del termine per proporre ricorso per cassazione sia
ammissibile e se, conseguentemente, la Corte, accertata l’estinzione del
reato, debba dichiarala annullando senza rinvio la sentenza denunciata;
o se, invece, la deduzione della estinzione del reato per effetto del
decorso del tempo (anche accompagnata da motivi inammissibili) precluda
l’accesso al giudizio di legittimità per non essere ammissibile la
proposizione di una simile "censura".
Sul punto è effettivamente riscontrabile un contrasto
giurisprudenziale, pure se – come si vedrà fra poco – la situazione di
conflittualità non sembra incidere con la necessaria proiezione
dilemmatica sui presupposti ermeneutici dai quali discende la soluzione
cui occorre pervenire e che risultano incentrati sui temi concernenti,
da un lato, la nozione di inammissibilità dell’atto di impugnazione e
le conseguenze che ad essa si ricollegano e, dall’altro lato, i rapporti
tra inammissibilità del ricorso ed applicabilità dell’art. 129 c.p.p.;
tematiche che si profilano "logicamente pregiudiziali", oltre
che avvinte da un vero e proprio rapporto di complementarità e che già
sono divenute oggetto di numerosi interventi da parte di queste Sezioni
unite.
5. Al momento avendo di mira i termini del contrasto, per restare
alle più recenti decisioni attestate sulla linea ermeneutica che
ritiene in ogni caso operante la causa estintiva, una pronuncia,
premesso che l’ipotesi in cui la prescrizione sia maturata nella
pendenza del termine per proporre ricorso per cassazione va assimilata a
quella del ricorso presentato per far rilevare la prescrizione
intervenuta e non dichiarata nel giudizio di merito, assume che fino a
quando la sentenza non è divenuta irrevocabile, il giudice deve sempre
applicare la legge penale – salvo le eventuali preclusioni non evocabili
in presenza di una prescrizione già maturata – in forza del precetto
dell’art. 129 c.p.p., che impone di dichiarare l’estinzione del reato in
qualsiasi stato e grado del processo. Ove la prescrizione maturi, perciò,
dopo il giudizio di merito, ma prima che la sentenza sia divenuta
irrevocabile, poichè l’applicazione di tale causa estintiva non avrebbe
potuto essere richiesta se non alla Corte di cassazione, a norma
dell’art. 606, comma 1, lettera b, c.p.p., l’estinzione del reato deve
essere dichiarata nel giudizio di legittimità (Sez. I, 28 ottobre 1997,
Plojer). Una diversa Sezione di questa Corte, dopo aver precisato
(almeno in apparenza, correttamente) che il ricorso non è affetto da
inammissibilità originaria tanto da non precludere la possibilità di
prendere in esame il motivo avente ad oggetto la prescrizione, conclude,
ma in modo contraddittorio rispetto alle premesse, nel senso che
l’imputato ha il diritto di allegare come motivo la causa estintiva che,
pur sopravvenuta alla sentenza impugnata, si sia verificata prima della
scadenza del termine di impugnazione e della stessa proposizione del
ricorso, anche se – e qui l’approccio ai rapporti fra inammissibilità
del ricorso e applicazione dell’art. 129 c.p.p. diviene non pertinente –
eventuali altri motivi (evidentemente quelli tecnicamente qualificabili
come motivi di impugnazione) siano affetti da inammissibilità
originaria per genericità (Sez. V, 29 aprile 1999, Russo).Infine,
un’altra decisione della stessa V Sezione si limita a ricordare quanto
statuito dalla sentenza Plojer, osservando che il ricorso per cassazione
proposto unicamente al fine di far valere la prescrizione, è
ammissibile qualora la causa estintiva sia intervenuta nel periodo
corrente tra la pronuncia di merito e la scadenza del termine per il
gravame perchè fino a quando la i condanna non sia divenuta
irrevocabile, il giudice deve dichiarare, ex art. 129 c.p.p.,
l’estinzione del reato (Sez. V, III 29 aprile 1999, Bux).
6. La contrapposta linea interpretativa, pur pervenendo a conclusioni
fra loro omologhe, delinea diverse tipologie di inammissibilità , come
tali, sempre preclusive all’introduzione di un valido procedimento di
impugnazione, ravvisando un insuperabile ostacolo – nel caso in cui
l’unica "doglianza" si incentri sulla prescrizione maturata
dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello, anche se nella
pendenza dei termini per proporre ricorso per cassazione –
all’applicazione della causa estintiva.
Si è ritenuto, più in particolare, che, se è vero che la Corte di
cassazione deve, come ogni altro giudice, rilevare di ufficio le cause
di estinzione del reato con obbligo di immediata declaratoria ex art.
129 c.p.p., occorre pur sempre, perchè un simile potere-dovere venga
legittimamente esercitato, che la Corte sia stata investita di doglianze
in grado di instaurare il relativo giudizio; di un ricorso, dunque, non
affetto da inammissibilità originaria. Un ricorso che si limiti a
richiedere l’applicazione della prescrizione, lungi dall’introdurre
censure nei confronti della sentenza di condanna, si risolve in una
domanda di (mero) accertamento della sopravvenienza di una causa
estintiva del reato. La conclusione è davvero perentoria: il ricorso
che, per sua stessa natura, dovrebbe tendere a prospettare vizi della
sentenza di merito, non è neppure riconducibile allo schema dell’atto
di impugnazione, "non essendo stata lamentata l’ingiustizia di
quanto in precedenza pronunziato" ed è, quindi, colpito da
inammissibilità originaria (Sez. V, 7 luglio 1998, Sasso).
Un’ulteriore sentenza richiama, invece – ma con differenze non
decisive rispetto alla pronuncia da ultimo ricordata – l’art. 606, comma
3, sotto il profilo dei motivi non consentiti, rimarcando come la
violazione di doveri sostanziali o processuali deve avvenire nel corso
del processo riverberandosi sulla sentenza impugnata per cassazione. La
semplice deduzione della prescrizione verificatasi dopo la pronuncia
della sentenza impugnata, è, si afferma, motivo del tutto estraneo,
come tale, inidoneo ad integrare alcuno dei casi per i quali è ammesso
il ricorso, implicando l’accesso di una censura non annoverabile tra i
"Casi" previsti dall’art. 606, comma 1, c.p.p. Gli effetti che
se ne fanno scaturire sono pressochè identici a quelli derivanti dalla
statuizione prima rammentata; se la sentenza "non viene aggredita
in nessuno dei suoi aspetti (…quindi solo apparentemente è oggetto di
impugnazione) e se neppure l’iter del procedimento che ha condotto alla
pronuncia giudiziale viene sottoposto a censura, è evidente che una
sentenza dichiarativa della prescrizione del reato maturata dopo la
sentenza di merito finirebbe per "intaccare" il giudicato
sulla responsabilità che si è venuto a formare poichè rispetto alla
pronuncia che la contiene nessuna censura, neppure di forma, è stata
mai prospettata (Sez. IV, 12 aprile 1999, Condello).
Sulla stessa linea, una più recente decisione, penetrando davvero in
medias res, rileva che il ricorso per cassazione proposto esclusivamente
per far valere la prescrizione maturata i dopo la sentenza impugnata e
prima della proposizione del ricorso, privo di qualsivoglia doglianza
relativa alla decisione, viola il principio enunciato dall’art. 581,
lettera a, c.p.p., ed esula dai motivi in relazione ai quali può essere
proposto ricorso per cassazione a norma dell’art. 606, comma 1, c.p.p.
Ed appare altamente significante il richiamo di questa pronuncia alla
decisione delle Sezioni unite con la quale si statuí che la mancanza
nell’atto di impugnazione dei requisiti prescritti dall’art. 581 c.p.p.
e, dunque, pure della specificità dei motivi, rende l’atto inidoneo ad
introdurre il nuovo grado del giudizio ed a produrre, quindi, quegli
effetti cui si ricollega la possibilità di adottare una decisione
diversa dalla dichiarazione di inammissibilità , identificando cosí una
causa di inammissibilità originaria del gravame, la quale impedisce di
rilevare e dichiarare, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., eventuali cause di
non punibilità . Di qui l’epilogo, ancor più perentorio, nel senso, cioè,
della inammissibilità del ricorso per mancanza dei motivi (Sez. I, 3
febbraio 2000, Vitti).
7. Ritengono le Sezioni unite che debba essere condivisa la seconda
delle linee interpretative sopra rammentate e che, conseguentemente, il
ricorso vada dichiarato inammissibile.
Come si è già accennato, l’opposta scelta ermeneutica, nel suo
esclusivo insistere sull’ammissibilità di un atto di impugnazione cosí
designato, sembra trascurare, da un lato, la nozione di inammissibilità
del ricorso anche con riferimento ai vizi con esso denunciabili e le
conseguenze che discendono dalla proposizione di un ricorso
inammissibile; dall’altro lato, i rapporti tra inammissibilità
dell’impugnazione e applicabilità dell’art. 129 c.p.p., pure nel suo
necessario coordinamento con gli specifici compiti assegnati alla Corte
di cassazione nell’ipotesi di questioni rilevabili di ufficio in ogni
stato e grado del processo e che non sarebbe stato possibile dedurre in
grado di appello. Problematiche fra loro complementari che risultano
oggetto di una complessa elaborazione giurisprudenziale già nella
vigenza del codice abrogato e che nel sistema del codice 1988 hanno
raggiunto, in conseguenza di reiterati interventi delle Sezioni unite, a
conclusioni che paiono direttamente incidere sulla questione ora al
vaglio della Corte.
8. L’abbrivo per pervenire ad una soluzione del contrasto che sia
attenta alle sequenze interpretative riscontrabili sulle tematiche ora
evidenziate, risalenti agli albori della vigenza del nuovo codice di
rito (pure se la problematica aveva già investito anche il regime del
codice del 1930) va individuato in quella decisione delle Sezioni unite
(Sez. un., 11 novembre 1994, Cresci) che, chiamata a dirimere il
contrasto circa la natura originaria o sopravvenuta delle cause di
inammissibilità del ricorso derivanti dalla proposizione di censure
affette da uno dei vizi indicati nell’art. 606, comma 3, c.p.p. – in un
quadro attento alla più generale tematica dei rapporti tra ricorso
inammissibile e applicazione delle cause di non punibilità – ha, in
primo luogo, statuito come l’art. 648 c.p.p. non possa essere utilizzato
per individuare nell’ambito della cognizione del giudice
dell’impugnazione un simile rapporto, essendo questa disposizione
diretta a disciplinare il giudicato ed a segnare l’inizio della fase
esecutiva, conseguentemente incentrando nelle norme che regolano il
processo il regime delle interferenze tra cause di inammissibilità e
cause di non punibilità , al fine di stabilire quale tra esse debba
prevalere.
I percorsi interpretativi cui si raccorda l’esame comparativo
dell’art. 591 c.p.p. 1930 con l’art. 648, comma 2, del vigente codice di
rito pervengono ad una prima, essenziale ricognizione. Che, cioè, la
scadenza del termine per impugnare si iscrive quale condizione per la
formazione del giudicato formale, quando l’impugnazione non sia stata
proposta, cosí da giustificare, oltre tutto, la collocazione della
scadenza del termine fra le cause di inammissibilità previste, in via
generale, dall’art. 591; in caso di accesso ad una diversa ricostruzione
sistematica si giungerebbe alla conclusione, davvero irragionevole, se
non addirittura paradossale, che l’atto di impugnazione, pur se tardivo,
mai consentirebbe la formazione del giudicato formale, con ,intuibili
riverberi anche sulla fase esecutiva.
Nonostante, però, l’unicità dell’atto, che contrassegna
l’impugnazione nel sistema del nuovo codice, e la conseguente
irrilevanza del disc
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